In val Trebbia un’estate
di Bernardo d'Aleppo
Il mezzo pomeriggio era segnalato, come spesso in quelle valli
appenniniche, da momenti di vento non forte, ma balzano; giocava, come
un cucciolo di alano, lungo le pendici boscose, cercandosi la coda o rincorrendo
l'ombra di una nuvola leggera.
Da tre giorni giravo a piedi, senza far molto altro che guardare
e ascoltare. L'indomani sarei andato in paese a fare spesa, non era un
trekking-avventura il mio, ma una vacanza-ricompensa dopo un altro anno
all'ufficio titoli esteri e derivati della Colonel Insurance.
La sorgente di acqua solfurea, di cui mi avevano detto due anni
prima, mi sfuggiva, ma non era un gran male, semmai un'ottima scusa per
tornare l'anno prossimo, o l'altro ancora.
Stavo con le spalle appoggiate ad un tronco e, attraverso un'apertura
del fogliame, guardavo l'altro versante della valle boscosa e la cascata
del ruscello che, da una convalle, si precipitava leggera, perdendosi nel
fitto della forra sottostante.
Un rumore alle mie spalle mi fece voltare e così scorsi
cadere qualcosa di un color verdastro e piuttosto grande, a forse dieci
metri da me, qualcosa che subito sparì tra le felci, quasi senza
disturbarle.
Sarei subito andato a vedere di cosa si trattasse se in quel
momento non avessi colto due occhi, perle d'ambra, che mi guardavano e
mi sfuggivano.
Mentre io, immobile per lo stupore, mi forzavo a distogliere
lo sguardo, sentii con un brivido che mi si rizzavano i peli. In un istante
decisi che avrei dovuto allontanarmi fingendo di non averla vista, chissà
forse era una pantera, forse un puma sfuggito a qualche zoo privato
o forse chissà cosa.
Mi allontanai emozionato, curioso, spaventato; con mille ipotesi
che mi ballavano in mente e così pochi elementi per decidere a quale
sensazione dare ascolto, a quale ipotesi dare credito.
Percorrevo ora un ampio, antico sentiero, tra castagni centenari,
la strada che, secondo la leggenda locale, aveva percorso Annibale per
attraversare gli Appennini. (Prima o dopo la battaglia sul Trebbia contro
i Romani?) Ecco questa doveva essere la famosa curva del cammello
morto... continuavo a divagare, cercavo di non pensare a cosa avevo visto
cadere (cadere? cade un gatto?) dall'albero poco prima.
Un paio d'ore dopo il buio incombeva, perciò decisi di
fermarmi, cominciavo ad avere fame ed era necessario pensare alla notte:
dovevo avere tutto a portata di mano ed ordinato, altrimenti trovare ciò
che mi serviva sarebbe stato difficile.
Feci cena con un tè, un salamino ed un paio di gallette,
non potevo fare un fuoco dato che era estate ed ero nel pieno del bosco,
perciò mi stesi nel sacco, che già era imperlato di umidità
e mi misi a ripassare gli avvenimenti della giornata, rassegnandomi ad
una lunga attesa del sonno, senza neppure la distrazione del fuoco, né
delle stelle e invece crollai come un budino.
Il mattino mi svegliò dopo avere svegliato qualche cornacchia
ed un cuculo. Mentre aspettavo si scaldasse il tè mi ricordai del
primo gatto della mia vita, un gatto nero di una mia cugina piccolo e graffioso
e poi della mia Sofia, bianca e grigia, gran cacciatrice, quando andavo
a letto lei, dalla poltrona a due metri da me, se le parlavo faceva delle
fusa da sembrare un motorino; il borbottio del pentolino del tè
sul fornello mi riportò all'attualità.
Fu solo facendo il sacco che percepii coscientemente un odore
di gatto e mi guardai in giro, ricordando d'un tratto l'episodio del giorno
prima, cui, chissà come, quel mattino non avevo ancora pensato.
Perlustrai i dintorni a lungo, meticolosamente credo, ma senza trovare
né un'impronta né una traccia sul terreno o tra i cespugli;
eppure più d'una volta, muovendomi nell'aria immobile del bosco,
avevo percepito quell'odore, ma così leggero da credere quasi mi
fosse rimasto impigliato nel cervello durante un sogno. Infine su
una grossa robinia, che con i suoi rami formava una specie di ponte naturale
tra due maestosi castagni, vidi un ciuffetto verde che non sembrava muschio.
Cercando di individuare percorsi arborei praticabili da un essere di quella
taglia, arrivai nella zona dove, poco prima, avevo percepito il ricordo
di quell'odore felino e vidi un incrocio di rami forti, appiattito, su
cui, dopo qualche acrobazia, trovai numerosi di quei peli verdi, impigliati
nella corteccia scabra.
Quell'odore mi solleticava il cervello, cominciai a perlustrare
quell'intrico di rami, il naso sulla corteccia e nel farlo cercavo la posizione
più comoda.
Mi ritrovai così con le gambe a cavalcioni di un grande
ramo che si triforcava all'altezza del mio bacino, le due branche ascendenti
me lo fasciavano quasi, le gambe pendenti si appoggiavano sui rami trasversali
di una quercia, e le spalle trovavano un appoggio simile al bacino; allora,
mentre perlustravo con l'olfatto la corteccia, traendone brividi inquietanti,
vidi i segni, decisi, di artigli, un braccio avanti al naso e mi accorsi
di avere un'erezione.
A questo punto la situazione era scomoda, provai a voltarmi
pancia all'aria, pensando di rimanere a fantasticare lì, dove lei,
a questo punto non avevo dubbi che fosse una lei, doveva essere rimasta
durante la notte, e fu così che la vidi sopra di me, incontrai il
suo sguardo e mi scomposi perdendo l'appoggio con le spalle, un istante
di contorcimenti spasmodici e mi ritrovai abbracciato al ramo. Lei sbadigliò,
io distolsi lo sguardo dal suo viso e fu allora che vidi la sua coda, oscillava
pigramente dalla metà in poi, incurvandosi leggermente alla estremità.
Abbandonato l'appoggio con le gambe mi lasciai cadere a terra,
ma rialzato lo sguardo non la vidi più, solo un movimento delle
fronde alla mia destra denunciava, forse, la direzione della sua scomparsa.
La sua bocca, in quello sbadiglio, mi era parsa così vezzosa...
e pure gli incisivi, forti ed i canini, appuntiti, potevano essere temibili
mi dissi, ma quella lingua lilla, dolcemente incurvata verso l'alto, faceva
così audace contrasto con le labbra brune... sarebbe stata ruvida
e rasposa o liscia e morbida al tatto? Ma mi accorsi che non pensavo per
confronto alla lingua di un cane o di un gatto sulla mano, pensavo a
dei baci, lunghi baci insistiti, elettrici, rischiosi... Era il caso
di aprire una delle due mignon di liquore che portavo per i casi di emergenza.
Dovevo decidere tra la fuga e la caccia: l'acquavite mi fece
decidere per la caccia, per cui mi dedicai alla pesca per avere del cibo
con cui attirarla; non avevo attrezzi con me, per cui feci uno sbarramento
di sassi lungo il vicino torrente, quel tanto da impedire ai pesci di infilarcisi
in mezzo e a monte coprii l'acqua con rami e larghe foglie, più
tardi dal basso, risalii il torrente smuovendo le pietre e facendo confusione:
il risultato furono quattro trotelle che, saltate fuori dall'acqua per
superare l'ostacolo, finirono sui rami predisposti ad accoglierle.
Pulii le trote, ma poco dopo cominciarono ad arrivare vespe e
mosche e quant'altro; pensando poi che difficilmente la "pantera" si sarebbe
avvicinata di giorno, le appesi allora, per salvarle dagli insetti, su
un fuoco leggero e fumoso, prudentemente acceso tra i sassi del greto,
in quel punto largo e spoglio, mentre io consumavo un pasto liofilizzato
sciolto in acqua.
Dormivo in mutande su una roccia, al sole, da un po', quando
mi svegliò una sorta di motore elettrico che mi fece, nel dormiveglia,
pensare all'India e ai suoi ventilatori a reazione; restai un attimo a
crogiolarmi nella mezza coscienza del risveglio senza rendermi conto di
dove fossi.
Prima di averci potuto pensare mi stavo stirando e con la mano
destra incontrai del morbido, il motorino si fece più vicino e,
con la coda dell'occhio, vidi l'estremità della sua coda sollevarsi
e abbassarsi ritmicamente. Il cuore mi scese nella pancia e ci rimase un
momento; ero immobile e dietro le palpebre socchiuse mi danzavano i segni,
profondi, degli artigli sui rami.
Il rumore si stava spegnendo e mi venne di carezzare quel pelo
sottile ed il motore riprese potenza, mi voltai dunque, lentamente, dovevano
essere fusa! E la vidi: i suoi occhi dorati, socchiusi, mi guardavano con
curiosità e sufficienza; la sensazione di un saluto prese forma
nella mia mente. Ritirai, imbarazzato, la mano con cui le stavo
carezzando la pancia, piuttosto in basso.
Lei era sdraiata su un fianco, poggiata ad un gomito e su una
delle scodelle nere, che aveva davanti, stavano le mie trotelle ancora
legate tra loro, nelle altre dei pesci piccini in una salsa bianca, dei
granchi grigi immersi in un liquido trasparente e celeste, e poi delle
palline come uva nera, su un letto di alghe verdi e salsa rossa; un invito
a pranzo?
Un senso di lontananza mi invase la mente un momento e scomparve.
Lei piegò lentamente la gamba destra, alzandola,
mentre la coda le si insinuò tra le gambe e poi si stirò.
I suoi seni dai capezzoli bruni puntarono dritto verso il cielo e mi venne
un gran desiderio di me che mi confuse, e voglia di mordermi il collo e
di piantarmi le unghie nelle spalle. Ed un senso di vuoto mi si irradiò
dalla base del cazzo, mentre un piacere come pregustato, come un
affamato in una gastronomia, mi percorreva la schiena fino alla nuca.
I miei pensieri non erano miei. Le sue sensazioni partivano
dalle mie cellule nervose, e le sue fantasie vi arrivavano. Non era così
che avevo pensato la telepatia. Attraverso la paura fisica, la curiosità
ed il suo senso di abbandono, tornai un poco me stesso e stesi una mano
ad accarezzarla e di nuovo le sue fusa riempirono l'aria ed ella si abbandonò
chiudendo gli occhi. Mi feci più da presso ed ella socchiuse le
gambe, mentre con la coda solleticava il mio pene confuso e vestito. Immerso
in un profumo di bucato e di erba tagliata che sembrava sprigionare dal
suo corpo, avvicinai il mio viso al suo ed ella socchiuse le labbra e il
suo alito muschioso mi sfiorò prima che cominciasse a leccarmi le
orecchie, cosa che fece a lungo e con impegno e intanto la paura, che mi
aveva irrigidito, scivolava dalle spalle. Cominciai allora a grattarle
dolcemente dietro le orecchie, appena appuntite, e una grande dolcezza
mi fluì in ogni parte del corpo, conosciuta e sconosciuta.
I nostri corpi aderivano ora e i suoi capezzoli sporgevano tesi verso i
miei ed ogni respiro si faceva più corto del precedente, un odore
nuovo e fresco saliva dal suo pube, la sua coda oscillava lenta sulle mie
natiche e i suoi denti scorrevano dal mio collo alle mie spalle come elettrodi.
Cercai di sfilarmi le mutande ma lei me lo impedì e le lacerò
ai lati con le unghie, gli elastici si tesero e mi batterono i fianchi
con forza e in un momento l'erezione mi passò, per un istante il
cielo mi sembrò scuro e una sensazione di insoddisfazione, come
di fame, mi farfalleggiò nella mente.
Per me era troppo, tutto insieme, e intanto avevo voglia
di parlarle, come ad un amico che da tanto non si vede e di mangiare e
di dormire..
Lei mi carezzò un poco tutto il corpo, sembrava mi conoscesse
così bene! Poi mi invitò a mangiare: il suo pesce era
crudo e senza sale, semmai un po' dolciastro, io feci gran sorrisi e trangugiai
senz'altro gusto che la curiosità, d'altronde anche le mie trote
erano semicrude e, pur con il sale, non particolarmente appetitose.
Si faceva sera, cominciò a scendere il fresco ed io mi
accinsi a fare un fuoco ma, appena in me prese forma quest'idea, ella mi
attirò vicino: mentre una notte scura e stellatissima mi riempiva
la mente, sotto di noi comparve una specie di grande e folta pelliccia
nera, tonda e tiepida ed ella si sdraiò con il capo sul mio petto,
al mio fianco ed io vidi il cielo che lei ricordava popolarsi di stelle,
lentamente, ed imparavo ad accettare o a respingere le immagini che lei
mi trasmetteva e potevo vedere il suo viso al di là delle stelle
e mi sembrava bellissimo e dolce, era come lei si vedeva; allora lei volse
il suo sguardo a me e cominciò, senza muoversi, a piangere e tutte
le stelle si fusero in una delle sue lacrime ed io cercavo di aprirmi,
di sentire ciò che lei sentiva, ma un grigio informe, vorticoso
e brulicante mi respinse. Mi chinai su di lei e la abbracciai; lei,
come una cucciola, si rincantucciò contro di me, mentre singhiozzi
acuti come guaiti la scuotevano tutta.
Piano, piano, s'acquetò contro il mio petto e il suo soffio,
regolare, me la fece pensare addormentata, così con lei tra le braccia
mi feci una sigaretta. Ma appena l'ebbi accesa non seppi che fare:
dove scrollare la cenere? Non certo sulla stupenda pelliccia che
ci faceva da giaciglio; la lanciai allora lontano, sentendomi eroico, con
più voglia di fumare di prima, già prima di averla lanciata,
ma la sigaretta interruppe la sua traiettoria e cadde tra i peli del nostro
folto tappeto. Mi svincolai in fretta dalla mia amica e la raccolsi,
continuava incurante a bruciare, feci un altro tiro e sporsi il braccio
per spegnerla tra l'erba, ma mi spensi la sigaretta sulle dita. Una
barriera invisibile impediva di varcare il perimetro della nostra pelliccia.
Protetto e prigioniero a un tempo.
Mi sedetti accanto a lei guardandola e cercando di immaginare
cosa potesse averla tanto turbata e chiedendomi se fossi nelle sue mani
e: chi era? da dove veniva? cosa l'aveva gettata nella mia vita?
Non feci in tempo a formulare quest'ultima domanda nella mia mente che
lei, alzandosi a sedere, mi tirò a sé; mentre immagini di
me nudo, in tutte le posizioni, possibili e non, puntualmente eccitato,
mi si proiettavano intorno.
A quel punto io feci altrettanto e pensai a lei in tutte le posizioni
del Kamasutra che ricordavo; le sfuggì un respiro rauco che era
quasi un ruggito, vidi i suoi artigli e l'immagine dei miei vestiti a brandelli....le
mie fantasie erotiche tremolarono e stavano per scomparire, quando lei
se ne accorse e con un sorriso cominciò delicata a slacciarmi la
camicia, standomi in ginocchio davanti; la sua coda passava tra le sue
gambe e formava una esse sul pube, che piano piano si srotolava e alla
fine passandomi sotto e tra le natiche si affacciò al mio fianco
destro e intanto, mi solleticava dolcemente le palle, che tra l'altro nella
sua immagine di me erano enormi: come limoni .
Ma erano i suoi baci, la sua lingua assurda, le sue labbra sode,
dal margine rilevato, i suoi denti che mi scivolavano lungo i nervi, che
mi eccitavano di più; alla luce della luna a momenti mi sembrava
un'adolescente somala, a momenti una divinità egizia, così
lentamente ci trovammo in piedi senza accorgercene e così, dolcemente
facemmo l'amore senza spostarci e di nuovo quel fresco odore salì
dal suo sesso mescolandosi al profumo di muschio del suo alito e fu più
dolce di quanto sappia dire...
Il mattino che mi svegliò non era il giovane mattino cantato
dagli uccelli, ma quello maturo nel quale ronzano le api ed ero solo, seppure
coperto da infiniti tenuissimi graffi.
fine
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