Alcuni brani tratti dal libro di Maurizio Rotaris
sulla Bar Boon Band edito da Grandi Stazioni SpA
Milano 2007
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Bibliografia di Maurizio Rotaris
Pagina
web di Maurizio Rotaris
Email: maurizio.rotaris@rcm.inet.it
CAPITOLO PRIMO
DA BARBONIA CITY ALLA STAZIONE CENTRALE
Storia di Maurizio Direttore artistico e musicista della Bar Boon Band
1981. I rumori del passato erano stati sostituiti dal silenzio catacombale
dei loculi di clausura di massimo controllo delle sezioni di sicurezza.
Assenza di suoni rotta solo dal calpestio dei passi veloci degli anfibidegli
agenti sui corridoi. Uomini avvezzi a muoversi in venti contro uno,addestrati
ad essere bastardi fin dal grembo materno, sfoggiavano spranghee manganelli
animati in ferro, con i quali più d’una volta avevanorotto
crani e arti, ossa e articolazioni.
Quel suono assomigliava al battito del cuore accelerato.
La notte il latrare dei cani da guardia nelle intercinte di alti murie
filo spinato, pareva un vagito di bimbi, accompagnato dalla tenue ninnananna
di un autoblindo in assetto di guerra, armato di mitragliatrici,che senza
sosta compiva, sferragliando lento, il perimetro del campo.
E io pensavo: pensavo se ne era valsa la pena, se c’era un
prezzo umano per buttare via la vita lì dentro, o se non si fosse
invece trattato di una tragica allucinazione collettiva, di un errore,
quella svolta storica e politica, che aveva attraversato una generazione
come una scheggia edilaniato un paese, lasciato a sanguinare.
Ricominciai a suonare.
A volte il solo suono del respiro pareva amplificarsi, altre sembravache
le mandate delle chiavi nella serratura della prima porta blindatafossero
come un forcipe che ti prendeva alle tempie facendoti nascere inanticipo,
lo sbattere della seconda porta blindata, come se quell’attrezzodi
prima, ti avesse scaraventato con un tonfo in un cassonetto d’immondizia,
come un neonato buttato via può sentire picchiandoci la testa.
Come essere richiusi in un sarcofago da vivi e le chiavi siano statesotterrate
nel deserto. Come era nel pronostico per le nostre esistenze.
L’odio per i muri e per l’acciaio era intollerabile
Cemento e acciaio, ferro e cemento armato: muri alti e muri ancorapiù
alti, grate, sbarre, filo spinato, cinte, porte blindate, intercinte,spioncini
in ferro, tavoli di marmo, doghe d’acciaio saldate a brande cementate
nel pavimento.
Era dura, difficilissimo far sopravvivere una scintilla di vita nonvegetale.
Fra le brecce del cemento a volte cresceva abusivamente del muschio.
Da lontano, a volte, si sentiva arrivare il profumo di un mare cheda
qualche parte pur ci doveva ancora essere, d’inverno venivano
i geloni,d’estate non c’era acqua, con temperature
da altoforno.
Gran parte della giornata le porte blindate delle celle erano chiuse,ma
in alcune ore era consentita la loro apertura e restava chiuso soloil cancello
a dividerci l’uno dall’altro, aprendoci l’un
l’altro sui corridoivuoti e silenziosi.
Con la mia chitarra cercavo di suonare molto delicatamente per nondisturbare
gli altri detenuti, ma pian piano le mie dita si sentirono piùsicure
e iniziai a dedicare i miei suoni agli altri.
Scoprii una tendenza musicale verso il blues, soprattutto con accordiin
minore, che non avevo mai conosciuto.
Mi mettevo col piede appoggiato sulle sbarre del cancello e provavoqualche
nota e qualche accordo sul grande corridoio silenzioso.
Gli altri detenuti non sembravano rifiutare la mia musica e cosìproseguii
per sere e lunghi giorni. Quelle note davano un po’ di calore,anche
se mi rendevo conto che usavo ancora sempre gli stessi accordi eproducevo
suoni certamente più complessi degli anni 60, ma in fondosempre
uguali.
D’altra parte l’ossessiva monotonia della vita
in un carcere, non lasciavamolto spazio alla fantasia e i molti ergastoli
degli inquilini di quellasezione, erano difficili da interpretare in musica.
Regnava un silenzio sbigottito, una certezza apparente che quelle muraci
avrebbero avvolto per sempre.
Interiormente ognuno di noi faceva costanti esercizi per trovare qualcosa
di vivo dentro di se ed io esternavo accordi e producevo suoni.
Nella mia tranquillità meditabonda, cercavo quelli che mi risuonavano
dentro, perché ci sono note diverse per ognuno di noi che ci suonano
diversamente nella pancia, in testa, nel cuore.
FESTA AL BAR BOON
Quell’inverno del 1995 faceva molto freddo.
Intorno alla Stazione Centrale, quella sera come sempre, si trascinavaun
popolo di persone barcollanti, che non si curavano dell’inverno
e dell’estate, del giorno e della notte, dell’andare
qui o là, era lo stesso, ingruppo, da soli, che importava ormai.
Senza meta, abituati a vivere in mezzo alla strada, senza nessuno acui
rendere conto, a volte neanche a se stessi.
Candidati spesso probabili all’obitorio, nascondevano, sotto
un cappuccio o un cappello bagnato, volti patibolari con rughe profonde
e segni di sofferenza.
Il marciapiede seguiva la facciata di quella grande montagna di marmo,fregiata
di grandi statue, archi, gallerie a atri.
Una lunga fila di uomini e donne, che tenevano fra le mani coperte,carrelli,
cartoni di vino, bambini, oggetti, siringhe, cuscini, sacchettidi plastica,
grandi borse o la mano di un altro, procedeva, quasi in ordine,sul porfido
luccicante, bagnato dalla pioggia.
Andavano verso un evento nuovo che attirava la loro curiosità,pur
esistente e sopravissuta in quella vita randagia fatta di poche cose,di
nulla e di abbandono.
Sotto il peso di una vita difficile di stenti e disagi, malattie esofferenze,
si trascinavano, derelitti, con piedi stanchi in scarpe logore,in calze
rotte sopra piedi gelati, in vestiti sporchi che coprivano malamenteossa
umide, madide di pioggia, di vento e di freddo.
La fredda notte milanese stava per avvolgerli nel suo manto nebuloso,accogliendoli
in un abbraccio d’abbandono ghiacciato che poteva essereletale.
Sulla grande facciata laterale della grande montagna di marmo, a sinistra
stava la piazza dedicata a Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi e più
avanti la monumentale scalinata che conduceva alla bellissima Sala Reale,
che i Savoia, Reali d’Italia, avevano voluto costruire per loro
quando prendevano o scendevano dal treno.
Di giorno quel marciapiedi era tutto un andirivieni di persone affaccendate
e frettolose, chi al lavoro, chi in partenza, chi all’arrivo.
Ma ora stava calando la notte.
Nella piazza le luci erano scarse e fioche, nel giardino centrale instile
liberty con belle fontane vuote, nel buio, si scorgevano sagome indistinte
che urinavano contro i pali, forme che cercavano uno scomodo giacigliomuovendosi
sulle panchine, presenze che si confondevano fra gli alberi.
Nel quasi totale buio dell’intera facciata della Stazione,
una piccola luce gialla filtrava, come una fiammella, al piano terra e
si riflettevaun poco sul porfido bagnato del marciapiede.
Avvicinandosi si intravedeva una porta dai vetri polverosi e scheggiatiin
più parti.
La luce usciva da lì: da quella piccola stanza di 40 metri quadrati
con le porte verniciate di verde e sopra un cartello bianco con scritto“SOS
Stazione Centrale”.
Quella luce fioca, da lontano, quella sera, sembrava una piccola candelaaccesa
nel buio di una città ostile o indifferente a quel popolo.
Quel popolo senza bandiere che vive ai margini della città intante
stazioni, in mille anfratti, ai bordi della società, ai limitidi
tutti i mondi.
Da Rio a Mosca, da Bucarest a New York.
Che dorme nelle cantine, nelle sale d’aspetto, sui binari,
sui pianerottoli, su macchine abbandonate, in case diroccate, nelle corsie
del pronto soccorso, su una panchina, su un vagone, sopra un cartone, sullo
zerbino.
Milano non era da meno: la capitale economica e finanziaria italianavedeva
paradossalmente all’opera, come a Calcutta, persino le Suore
diMadre Teresa, in assenza delle quali un centinaio di donne con bambiniavrebbero
dormito all’aperto.
Milano come Terzo Mondo, come all’Equatore. Uguale.
Quella colonna di uomini e donne camminavano come ogni sera verso quellapiccola
luce nell’atmosfera fredda e irreale di una temperatura sottozeroe
di una città che si preparava per le feste di Natale.
Incuranti delle feste natalizie e della suggestione degli eventi naturali,
di fronte a qualche raro fiocco, qualcuno fra loro esclamò “Porca
puttana, ci mancava anche la neve”
Ma quella sera andavano verso un evento molto particolare.
Sulla porta verniciata di verde un cartello indicava:
“Stasera 18 dicembre 1995 spettacolo Bar Boon
suonano Maurizio Rotaris e Diego Raiteri”.
Le porte si aprirono: nel grande stanzone non c’erano addobbi
e festoni,ma le nude pareti di sempre, illuminate da quattro grosse lampade
al neon.Erano state disposte una trentina di sedie di plastica verde che
avrebberoaccolto gli ascoltatori. Pian piano iniziarono ad entrare con
i loro fagotti,i loro vestiti strappati, sistemandosi qua e là nel
piccolo centrod’aiuto, adibito per l’occasione a sala
da concerto. Vicino alla paretedue chitarre stavano appoggiate ai loro
sostegni e non c’erano microfonie amplificatori. Le dimensioni
ridotte della stanza, d’altra parte avrebberoconsentito un facile
ascolto, anche senza diffusori acustici.
I presentatori, parlando, guardavano, entrambi, le decine di occhidi
quei volti puntati su di loro, che erano di varietà estreme:ognuno
nelle sue forme uniche, appartenenti tutti a diverse dimensionie forme,
ma accomunati, tutti, dall’essere in fondo riconoscibili comeumani.
Nonostante ci fosse in tutti la consapevolezza preliminare che il destino
non sarebbe significativamente cambiato per nessuno, ci fu un calorosoapplauso.
Guardando quegli uomini e quelle donne che trascorrevano la loro vitacatatonica
sdraiati fra le panchine dei giardini e i sedili di marmo dellastazione,
si notava una profonda differenza. Non erano più desolatamentemuti,
non apparivano più silenziosi e avviliti, non si coglievapiù
solamente la smorfia di sofferenza che attraversava sempre illoro volto,
non erano più solo abbioccati dalle sostanze e dall’alcol,ma
erano vivi, stravolti da una gioia nuova.
La musica stava svolgendo un benefico effetto.
SI FORMA LA BAR BOON BAND
Un popolo che creava allarme sociale e preoccupazione in una società
che preferiva alle politiche sociali, la tendenza alla sicurezza dei cittadini,
che non investiva a livello progettuale e istituzionale, attenzione e risorse
per queste fasce di popolazione abbandonate a se stesse e contraddittoriamente
definite “un pericolo” per le quali andavano mobilitate,
secondo molti,solo le forze dell’ordine.
D’altra parte il cittadino era martoriato dagli interessi
dei mutui, preoccupato dal posto auto per la sua nuova turbo spaziale fiammante,
ojeep a pullman, o dall’ombrellone con due sdraio due, sulla
costa del Pacifico, o preoccupato di non far brutta figura se non riusciva
a star dentro neicosti-media-pro-capite-previsti-cadauno per i regali nelle
festività.
E certo doveva misurare nel suo immaginario la sua stabilitàsociale,
dalla distanza che lo separava da quel barbun, che gli stava sedutoqualche
fila dietro nel cinema della vita.
In un territorio abbandonato a se stesso, sprovvisto di strutture adeguate
di accoglienza e presa in carico delle persone in condizione di grave emarginazione
sociale, l’unica risposta istituzionale pareva essere solo la
repressione e il controllo di polizia.
Polizia, telecamere, controlli a tappeto, nuove carceri, autobus strapieni
di clandestini, maxi operazioni, sirene e lampeggianti accesi sempre evigilanza
armata intorno all’albero di Natale.
Per la piaga della microcriminalità e del degrado sociale delquale
queste persone erano portatrici, le uniche risposte proposte e cercate,erano
la sicurezza e la tolleranza zero.
Mancavano le strutture di accoglienza per la notte e per il giorno,centri
adeguati per facilitare il recupero, politiche sociali e sanitariein grado
di far fronte all’ondata di irregolarità degli stranieri,del
dilagante traffico di strada della droga, di un lavoro sociale chefacesse
intravedere una luce di speranza a chi era in difficoltàe non la
certezza che quella curva discendente dell’ emarginazione, liavrebbe
inevitabilmente portati verso un abisso.
Bastava a volte la perdita di un piccolo ingranaggio, nel micidialee
impietoso macchinario, per scivolare verso il fondo.
“Benvenuti al Bar Boon Band. E’ lo spettacolo della
gente di strada,la banda dei barboni. Vi raccontiamo di stazioni, di persone
oltre il confinedi quella che è chiamata società. Nella nostra
ridente cittadinamilanese, dicono che sia anche una delle più importanti
e riccheal mondo, noi raccontiamo un’altra parte. Una parte dove
sei proprietariosolo di un sacchetto di plastica. Dove hai un sacco della
spazzatura comecuscino. Una parte dove se hai poca salute, ah, tienitela
stretta perché potresti perdere anche quella. Una parte dove stanno
droga, alcol, disperazioni, ma anche sentimenti e tante speranze.”
IL POETA DELLA STRADA
Storia di Marco Faggionato, poeta della Bar Boon Band
Per me la poesia era non tanto parlare con la gente, ma scrivere parlando
di me stesso, del bene, del male, della tristezza della gioia, della solitudine
della speranza, di un domani con una casa, forse un lavoro. Allora avevosolo
un piccolo sussidio però vivevo in stazione col sacco a pelo.
Quando non ero un barba avevo una casa, un lavoro, una moglie, unafiglia,
una famiglia e stavo bene. Lavoravo in una grossa impresa di Milanocome
piastrellista negli ospedali. Poi purtroppo bevendo ho perso tuttoa causa
dell’alcol. Sono andato in casa di cura ad Arco di Trento e mihanno
detto “guarda che se vai avanti così su questa strada,
l’alcolè più lento della droga, ma ci lasci la
pelle, caro mio”.Io ho perso tutto, mi son trovato la valigia
davanti alla porta, la casaè rimasta alla moglie e alla figlia e
il giudice ha assegnato miafiglia a lei quando aveva 3 anni. Io mi son
trovato in Stazione Centralee mi sono detto “qua se non mi dò
una svolta” …. Però lamente era offuscata dall’alcol.
Così ho provato ad andare agli AlcolistiAnonimi, ai centri di alcologia.
Dottori e psichiatri mi hanno fatto capireche dovevo allontanarmi dall’alcol
perché ci lasciavo la pelle.Anche perché io cui andavo giù
duro e quando prendevo unasbronza grossa ero da ricovero alla neuro. Visto
che già scrivevoqualche pensiero mi consigliarono di continuare
a scrivere e cosìtante volte invece che entrare al bar, mi sedevo
su una panchina. Scrivendopian piano mi son tirato un po’ fuori.
Quando ho capito veramente il problema,quando la mente non era più
offuscata dall’alcol ho detto “qui saràmeglio
prendere una decisione, pensare alla vita, eh….sono sano come
unpesce, gli unici ricoveri che ho avuto li ho fatti a causa dell’alcol,ho
la fortuna di essere ancora in forze e in salute, sarebbe un delittobuttare
via questa fortuna. Anche il dottore del centro di alcologia midiceva “guarda
che c’è gente che pagherebbe qualsiasi cosa per nonstare
dentro un polmone d’acciaio, o con malattie incurabili, tu hai
unasalute di ferro e saresti proprio un deficiente se te la vai a cercare…
per un bicchiere di vino, non ne vale troppo la pena”.
Allora lì ho cominciato a drizzare le orecchie e a capire ilmio
problema di alcolista. Purtroppo è una malattia anche quella,che
distrugge famiglie e persone.
Io ho passato mesi in ospedali, in psichiatria, in rianimazione, sonostato
anche in coma e quando uscivo mi ritrovavo sempre in strada. Unavita dura
e difficile, ma non mi sono mai degradato dentro, anche quandobevevo forte
non ho mai messo una mano addosso a mia moglie e a mia figlia.Certo di
guai e dolori ne ho causati tanti e infatti mia figlia dopo tantianni non
mi vuole ancora vedere, forse perché non ero un padre modellonon
avevo una casa, un lavoro. Non è ancora contenta di me, anchese
l’ho sempre rispettata e tutto. Lei crescendo capisce le cose
e … avereun papà così… si vergogna
di questa situazione e non ne parlamai. Mi tiene lontano.
Porto sempre dentro questo dolore.
Io penso pian piano di riuscire a riconquistarla e se la incontrassile
direi “Guarda Silvia che l’alcolismo è una malattia
e se potessi tornare indietro avrei ancora te, la mia famiglia e mia moglie
che ci volevo bene”. Alla mia famiglia ci tenevo, ma purtroppo
gli sbagli si pagano enon si può tornare indietro, ma cercare di
andare avanti. Se laincontrassi o potessi farglielo sapere le direi “se
un giorno vuoi incontrarmie parlare, discutere, per me è una cosa
seria e importante perché per me sei sempre mia figlia”.
Certo tenendomi questi sentimenti dentro per tanti anni da lì nasce
anche la tenerezza e la dolcezza cheesprimo in molte mie poesie. Ne ho
scritte tante dedicate ai bambini. Ibambini sono creature innocenti, anche
il padre più disgraziatoche c’è a suo figlio ci
tiene.
A mia figlia ho dedicato una poesia che si intitola Silvia ed èstata
pubblicata su un giornale. Parlava di lei, dei suoi capelli biondimossi
al vento dei suoi occhi azzurri. Gliel’ho spedita. Adesso lei
è grande ha 22 anni ma non siamo ancora riusciti a ricucire il nostro
rapporto.
Ormai alla mia età non potevo più sperare di fare carrierae
successo come scrittore o diventare un grande poeta, ma mi interessavaportare
la mia testimonianza di uomo con una vita di strada. Io sono contentoquando
faccio gli spettacoli e la gente mi applaude per quello che trasmetto,per
quello di dico e racconto.
Certo per un senzatetto partecipare al BBB non lo fa diventare un cantante
o un poeta famoso, ma gli dà il modo di esprimersi e di esprimerei
problemi di chi vive in queste condizioni. E’ l’espressione
della malattiain una società che non si accorge di essere malata,
una società dove in pochi si accorgono di chi sta peggio. Io mi
sento ancora fortunato, ho la salute, non bevo più, sto bene, ma
c’è gente che staveramente male e io non me ne dimentico.
LA STRADA NELLA PERIFERIA DI MILANO
Storia di Gigi, cantante della Bar Boon Band
“Provengo da una famiglia normale, però a 12 anni purtroppo
lamia storia ha iniziato a incontrarsi con l’hashish e per un
anno èandata avanti così. Poi a 13 anni ho conosciuto l’eroina,
poi lacocaina e questo mi ha portato a dovere uscire dagli schemi della
vita e a delinquere.”
“Abitavo in zona Barona alla periferia sud di Milano.
Case popolari di nuova costruzione, fine anni 70 quartiere tutto nuovo
e lì hoiniziato, nonostante la mia giovane età, verso i 17
anni, ad averein mano i giri di droga di gran parte della zona. Era un
quartiere di operai,persone che tiravano a campare, non c’era
un benessere nelle famiglie.I figli che iniziavano a drogarsi non avevano
soldi per comprare drogase non iniziando a delinquere, rubare, spacciare.
Io facevo il pusher edero ben introdotto fin da piccolo nelle famiglie
malavitose. Avevo conosciutouna ragazza di nome Marilena, una bravissima
ragazza che non faceva usoe non sapeva della mia situazione, me ne innamorai
e malgrado questo ilguadagno facile e la dipendenza erano preminenti. Anche
con lei e con lasua famiglia dovevo raccontare un sacco di balle per avere
spazi e tempolibero per farmi e svolgere le mie attività. A volte
dovevo andarein altre città italiane o all’estero a fare
le consegne. Viaggiavomolto. Lei era stata molto importante nella mia vita
perché un giornole dissero che ero dietro allo spazio delle scale
collassato. Avevo avutola mia prima overdose di eroina e cocaina. Mi dissero
poi, perchéal momento io non ero in stato cosciente, che lei con
le sue forze, riuscìcomunque a trascinarmi fuori e mi ritrovai in
pratica sul lettino dell’OspedaleSan Paolo. Fortunatamente mi
risvegliai e per due mesi circa non ebbi piùalcun contatto con la
sostanza. Furono due mesi che sono ancora molto viviin me perché
sono stati il primo momento che mi ha fatto capireche potevo essere qualcuno
anche senza l’aiuto della droga. Iniziai a capireche dovevo togliermi
dalla strada, iniziai a lavorare come fornaio da miozio però durai
ben poco, giusto un paio di mesi. Poi ricominciaiad usare sostanze e tutti
i giorni non ero molto efficiente sul lavoro.Poi all’età
di 18 anni mi capitò un altro evento inevitabile,data la mia vita.
Dovevo dare un grosso quantitativo di eroina a dei tedeschivenuti dalla
Germania che erano miei clienti abituali. Sono partito perla consegna insieme
alla persona con la quale lavoravo; consegnammo lorola roba, ma dopo due
ore mi richiamarono e mi dissero che ne volevano un’altraquantità
più piccola, un etto. Uscii di casa per andare aritirare il quantitativo
e andai all’appuntamento portandomi la roba addossoperché
avevo fretta. Da anni erano miei clienti e mi fidavo. E inveceall’appuntamento
mi sono sentito tirare i capelli da dietro e poi prenderele mani che mi
venivano strette fra le manette. Dopo che si erano incontraticon me erano
partiti per la Germania, ma erano stati fermati alla frontiera.La Polizia
gli aveva chiesto il nome del fornitore e avevano cosìorganizzato
il secondo finto acquisto per beccarmi con la roba. Cosìdopo essere
stato massacrato di botte in commissariato, dopo che mi spaccaronole ossa
della mano sinistra, dopo tre giorni di celle di sicurezza, conbotte ogni
due per due per cercare di farsi dire da dove prendevo la roba,si aprirono
le porte del carcere nel quale non posso dire di essermi trovatomale perché
essendomi comportato bene, non avendo parlato ed essendoun personaggio
di spicco nel traffico, mi ritrovai immediatamente spalleggiato.Avevo dentro
con me il figlio di una persona dei quartieri alti che ioconoscevo molto
bene ed era molto ben piazzata nel traffico. Mi venne aprendere dalla cella
e mi portò nella cella con lui perché era importante. Entrando
nella sua cella e rispettando il suo ruolo e isuoi diritti di capo, che
venivano ovviamente prima degli altri, poteiusufruire di una carcerazione
tutto sommato comoda. Lo stesso avvenne peri sei anni di carcere che trascorsi.
Ero molto rispettato e temuto, unodi quelli che ti fanno, la barba, pelo
e contropelo a pistolettate. ”
IL GRUPPO
Non lo sentivo da tanti anni. Avevo telefonato a casa sua per dirgliche
il pezzo era finito e l’avremmo pubblicato, ma mi rispose la
moglie. Mi disse che sarebbe stata ben contenta di ricevere una copia del
cd edi citare Siro come autore.
Siro era morto a marzo.
Io non lo sapevo e mi sembrò bello dedicargli quella sua canzoneche
era la storia di un giovane impaurito di fronte a una malattia invalidante,
che trascorreva giorni della sua vita in ospedale e che terminava così:
“quando la mia vita sarà finita, penso a quelli che
restanoqui.
Spero di trovare fra loro se c’è, qualcuno che ti
parli un po’ di me
Io non voglio niente, niente dal futuro, mi basta soltanto sapere chec’è
Qualcuno che si ricordi ancora di me, qualcuno che ti parli un po’di
me.”
Uscito dalla comunità, dove si era disintossicato e recuperato,aveva
lottato per quindici anni contro la malattia, fino alla morte.
Il destino appariva a tutti inesorabile e ingrato. Se c’era
un Signore, che governava la vita di ogni uomo, forse bisognava chiedergli
risposteper quell’ingiustizia. Ricordai una predica di don Mazzi
dove parlava del destino di ognuno di noi: a volte, diceva, i disegni del
Signore sono imperscrutabili e non riusciamo a farci una ragione del dramma
e delle sofferenze causate dalla morte che ci strappa persone care. Ci
chiediamo perché proprio lui che era una persona così buona,
perché lei che avevalottato tanto per vivere. Eppure ci lasciano.
E chiediamo al cielo “Signore quale è il tuo disegno ?”
Forse quel cielo è come un tappeto,fatto di disegni formati da nuvole.
Forse noi stiamo guardando la partedi sotto del tappeto, si vedono, nodi,
imperfezioni e fili tirati.
Forse però, la parte di sopra del tappeto che vede Siro, èmeravigliosa.
Dopo quella novità che era un pugno nello stomaco un po’
per tutti, anche per quelli che non lo conoscevano, cantammo insieme la
suacanzone.
FIORI DI STRADA, I BARBA SU CD,IN SALA REALE E PIAZZA DUOMO
Appena il cd fu terminato, decidemmo di lanciarlo con una conferenzastampa
spettacolo che intitolammo “Non solo la pagnotta”.
Avremmo potuto farla nella solita Scala F di fianco a SOS, dove tante volte
ci eravamoesibiti in un circolo ristretto; avremmo potuto scegliere la
FondazioneExodus, che a Milano ha la sua Direzione, con ambienti belli
e decorosi,ma, alla fine, la scelta che ci sembrò più giusta,
ricaddesul sontuoso Padiglione Reale della Stazione Centrale di Milano.
I nostri barboni si ritrovarono, insieme alla BBB, a varcare la portadel
luogo più distinto e signorile della stazione.
Quell’ambiente in stile “neoclassico”
che all’inizio del novecento,era stato costruito per la famiglia
del re e della sua corte, aveva unaccesso diretto dalla piazza, ove si
aprivano ampi portoni in ferro.
Davanti a quei cancelli i nostri clochard avevano spesso dormito, suigradini
di marmo, avvolti in coperte e coi cartoni come materassi.
Ora salivano i gradini in onice giallo di Chiampo, che li portavanoal
grande scalone a due rampe con la zoccolatura e le pareti rivestitein marmo
di Verdello e Asiago rosa.
Appoggiavano le mani consumate dal freddo alla balaustra in onice lasciando
leggere impronte. Le loro scarpe, da strada o da montagna, danzavano salendo
i gradini ricoperti da una passatoia rossa, fissata a terra con bastoniin
ottone.
La luce che filtrava, illuminando l’ambiente attraverso tre
grandifinestre rettangolari, poste sulla parete confinante con la strada,
ritraevaMarco Rossi, clochard proveniente dalla bassa padana, con il naso
all’insù ad ammirare un grande lampadario a dieci punti
luce, affiancato a due piccoli velari quadrati.
Si era anche tolto il cappello che sopra la visiera portava il logodella
polisportiva del suo paese e scoprendo così il cranio rasato.
Stefania Bassani, più lesta di lui, nonostante qualche chilettoin
più, lo stava già precedendo, arrivando per prima nellaSala
Reale, avvolta nella sua pelliccia sintetica beige. Osservava quegliambienti
che gli ricordavano vagamente le terme romane.
Gigi Geviti rimirava in alto con aria un po’ allampanata,
gli stemmi, gli scudi, i bassorilievi delle armi, gli stucchi, le statue
a forma d’aquila e il grande lampadario di cristallo al centro.
Giovanni Redaelli, il batterista che dormiva fra un’edicola
e un garage guardava in basso quel caldo parquet in mogano, ornato da svastiche
girate al contrario, come simboli del sole e coperto in alcuni punti da
tappeti, immaginando di averlo come giaciglio, invece del solito quadrotto
di plastica nera che aveva rubato sotto la metropolitana.
Lo sfarzo di quell’universo con grandi anfore verdi, mosaici
azzurri, arredi in noce, palissandro ed ebano, tende e poltrone in velluto
rosso,non sembrava affatto intimidire, gli artisti della Bar Boon Band,
abituatida sempre, sulla strada, a confrontarsi con un mondo multiforme.
Certo, c’era molta curiosità e il pensiero di portarsi
via qualche pezzo di quel mondo affascinante, ovviamente attraversò
la loromente, ma erano troppo voluminosi.
Io non potevo provare sensazioni e formulare pensieri essendo, comesempre
addetto a cimentarmi con spine, cavi aggrovigliati, collegamentie aspetti
tecnici che non mi erano mai piaciuti.
Avevamo sistemato un lungo tavolo ricoperto di velluto rosso al centrodella
sala, dal quale avremmo parlato, mentre ai lati avremmo eseguitoqualche
brano.
Eseguimmo le prove acustiche della sala che, per conformazione, consentiva,
nonostante l’ampiezza, di tenere i volumi abbastanza bassi.
L’effetto scenografico non era spaziale, anzi direi che sarebbe
potuto assomigliare a un mix fra un salotto barocco e un quadro da socialismoreale:
la banda dei barba in quella sala sfarzosa, mi faceva venire inmente quando
il comandante Makno, eroe della rivoluzione sovietica, eraentrato in una
villa della nobiltà zarista, saltando con gli stivaliancora infangati,
sul pianoforte a coda, per ballare il kazaciof.
Ma quella scenografia era quanto bastava per comunicare e poi bastaronola
carica, la passione e l’esagitazione degli autori e del coro
per stravolgere il tutto in pochi attimi.
Ci furono grandi applausi e molto calore e partecipazione, verificabile
non solo dal fatto che molti si buttarono a pesce sul ricco buffet cheera
stato preparato e servito da camerieri in smoking.
Il titolo della conferenza stampa d’altro canto era inequivocabile,
“non solo la pagnotta “, ma anche nutrimento per lo
spirito. I fans homelessche avevano fatto proprio il messaggio, degustavano,
non ingurgitavanocome al solito, appoggiavano appena le labbra ai bordi
delle tazze, nontracannavano come di consueto, tenevano il mignolo alzato
senza metterele dita nelle tazzine e dialogavano amabilmente fra loro solo
a bocca vuota.Gli era stato tassativamente vietato di litigare a bocca
piena.
Marco beveva caffè con panna e cacao.
Daniele P. sembrava molto gradire un cappuccino che sorseggiava dauna
tazzina bianca orlata d’argento. I baffi erano incremati di schiumae
la barba imperlata di polvere di cannella, di cacao e zucchero. Nell’altramano
brandiva una briosches alla marmellata. L’impresa inusuale di
mantenere con eleganza entrambe le mani occupate e sulle spalle il grave
peso diuno zaino stracolmo, contenente tutta la sua casa, gli provocarono
lo sgocciolamento di piccole parti di cappuccio sul pavimento in parquet
lucido e decoratocon fiori stellati. Arrossendo si affrettò, per
questo, a spalmarecon cerchi fatti con le sue eterne scarpe da montagna,
le piccole goccesu quell’opera d’arte, avendo cura
estrema di non deturparla.
Si allontanò poi dal luogo del fatto, osservando da lontanodi
sbieco, con il capo leggermente piegato, se il suo lavoro fosse venutobene
o fosse rimasto qualche alone o segno della sua maldestrezza.
In controluce da una grande finestra, un raggio di sole gli testimoniò
che non c’era nessuna traccia, tutto era a posto e si lisciò
i bafficon nobiltà e soddisfazione, come certamente anche un Savoia
avrebbefatto in quelle circostanze.
Certamente era già successo in passato.
Victor infatti gli disse che con quel gesto dei baffi assomigliavatanto
a Vittorio Emanuele III° quando aveva appreso della Marcia suRoma.
Intanto alcuni barba, fans della BBB, si erano sistemati a fumare fuoridalla
Sala, sul Binario 21. Poco più avanti, negli anni ’40,
daquello stesso binario, erano partiti i convogli stipati di ebrei, che
ilfascismo aveva destinato ai campi di sterminio. I nostri barba erano
propriosotto al grande mosaico che ritraeva Mussolini senza volto a cavallo.
Levoci narravano che l’assenza del viso fosse stata provocata
da un solocolpo di moschetto sparato da un partigiano. Non sapevano dove
buttarela cenere, per non sporcare quel pavimento in mosaico alla veneziana.
Provvisoriamentela tenevano in mano. Salvatore consigliava di buttarla
dentro al collodel dolcevita, Giorgio nelle calze.
Fra loro un concitato parlottare riguardava, certamente, la possibilità
di vendita degli oggetti di antiquariato appena visionati. Chi pensavaal
taxista, “quello nero che compra tutto”, chi a Mario
del chiosco dellebibite, chi ai viaggiatori o ai turisti stranieri.
Senza riuscire a trovare il bandolo della matassa, rientrarono nellasala
e si accontentarono di trafugare qualche briosches che sparìnelle
loro tasche.
STORIE DI ARTISTI DELLA BBB SULLA
STRADA
Storia di Marco Rossi, compositore della Bar Boon Band
Autore e cantante della Bar Boon Band
Nato nel 1961 a Melegnano in provincia di Milano.
Inizia a lavorare a 14 anni e fino a 24 fa il litografo
Fino al 1998 lavora all’azienda municipale per i servizi
ambientali.
Sposato dal 1983 al 1987, ha una figlia di 24 anni che vive con lamadre.
Dal 1984 usava coca e alcol, è entrato in comunità 2volte
e ne è uscito nel 1995.
Nel 1998 è stato licenziato a causa dell’alcol.
Dopo la separazione dalla moglie è andato a vivere con la madrefino
all’aprile 2005 quando è morta. Nella malattia l’ha
curata e accudita. Alla morte della madre, senza lavoro, ha perso la casa.
Senza un tetto è arrivato in Stazione in aprile 2005.
E’ stato ospite di numerosi dormitori.
E’ anagraficamente residente presso SOS Stazione.
Percepisce una pensione di invalidità per problemi correlatia
gravi cefalee a grappolo e neurologici. E’ in cura presso servizi
sanitari.
La sua compagna si chiama Stefania Bassani
Ha conosciuto Stefania alla Stazione Centrale di Milano 25 anni fa.
Per me suonare ha sempre voluto dire tanto, la musica è semprestata
la mia vita e ho incominciato a suonare e scrivere canzoni per scherzo,poi
mi sono accorto che invece potevano essere qualcosa. Quando ho avutol’opportunità
di farle sentire a Maurizio e gli sono piaciute misono sentito importante,
poi quando addirittura me le ha fatte registraremi son sentito qualcuno,
prima mi sentivo nessuno perché ero inmezzo alla strada e mi dicevo
“non ce la farò mai, non saròmai nessuno”,
invece con un po’ di fortuna grazie a Maurizio sono riuscitoa
registrare i pezzi a farli sentire e conoscere, ma soprattutto a farparte
di una band, della BBB.
Mai pensavo di arrivare a questo livello di essere abbastanza famoso,di
essere qualcuno. I miei pezzi li ho fatti conoscere anche in Rai quandoMaurizio
mi ha mandato con Stefania, poi li hanno mandati in onda anchesu Sky al
Maurizio Costanzo. Quando ho suonato in Piazza Duomo non ci credevo,è
stata una grande sorpresa e forse il regalo più bello dellamia vita,
mai avrei pensato di avere un palco di venti metri per venticon tutta la
strumentazione e l’amplificazione e il servizio di assistenzache
c’era. Devo dire che siamo stati bravissimi. Ho provato un’emozioneincredibile,
devo dire la verità ho dovuto prendermi un calmanteperché
ero agitato. Siamo arrivati in Piazza Duomo alle 9 del mattinoe abbiamo
suonato alle 15 del pomeriggio. Tutto il tempo siamo stati insieme,tutta
la band nel camerino. Quando sono salito poi invece non mi sono sentitoemozionato,
anzi ho cantato tranquillamente senza problemi. Tuttora quandola gente
mi incontra mi dice “ma tu sei quello che ha suonato in PiazzaDuomo
?” E devo dire che per me è un’emozione non
calcolabile. Tuttoera cominciato quando ho incontrato Maurizio e gli ho
fatto sentire Bruttiricordi, gli è piaciuta subito e l’abbiamo
registrata.
Brutti ricordi
Testo e musica di Marco Rossi
Se ti trovi in giro per il mondo e ti senti solo coi tuoi guai
Non guardare verso l’orizzonte non potresti ritornare mai
Se credi in una cosa giusta e se un giorno non ce la farai
Prova a credere nella tua vita guarda avanti e non voltarti mai
E la mia mente vola piano la malinconia
Stringo tra i denti questa rabbia che mi porta via
Sento il profumo di un’estate già finita ormai
Di tutti gli anni che non torneranno mai
Dietro lo specchio vedo un uomo grande ormai
Sa di libertà ti chiederà di più
Se per caso un giorno o l’altro pensi di tornare nella tua
città
Per vedere se le vecchie strade son cambiate o sono ancora là
e nascondere le cicatrici raccontare un sacco di bugie
guarda bene tutti i vecchi amici che non trovano la libertà
dietro i ricordi soffia il vento della fantasia
dietro i miei sogni c’è un veliero che li porta via
sento nel petto questa grande rabbia che
brucia dentro me, brucia dentro me
poi fermo il tempo per un momento
ti corro incontro cercando la mia libertà
e come un falco sempre più in alto
afferro il vento un giorno mi ha portato via
Tanto freddo pochi soldi in tasca all’uscita del metrò
Mi scoppiavano dentro nella testa i rumori della mia città
E le notti che restavo solo coricato sopra un vecchio tram
A pensare in quale film l’ho visto non sembrava neanche la
realtà
Brutti ricordi che non cambieranno mai
Che piangono con me
Che ridono con me, con me
DAI KAOS ROCK ALLA BBB
Storia di Cesare Pedrotti, cantante e compositore della Bar Boon Band
Essere un artista per me ha sempre voluto dire esprimere attraversole
parole di una canzone uno stato d’animo, cercare di illustrare
una condizione,cercare di far vedere agli altri un mondo sociale con i
suoi problemi, con le sue difficoltà ma anche con i suoi sentimenti
e le emozioni e gli amori possibili. Da lì la voglia di ricominciare
a comporre, a scrivere canzoni, a riscrivere della musica è stato
praticamente un tutt’uno.
L'episodio che diede il via a tutto fu in occasione (quasi casuale)di
una visita che feci a Maurizio negli uffici di SOS Exodus. Come giàdetto,
mi trovavo all’interno di questo luogo, l’Associazione
Arca, dovesono rimasto praticamente per 4 mesi e mezzo. Un posto dove la
gente cheentra non ha la possibilità di uscire liberamente se non
accompagnata, ma dove, se vuole, ha la possibilità di sentire e
misurare col proprio stato d'animo tutto quello che accade e che c’è
all’esterno.
Uscendo per una visita medica, passai dalla stazione insieme all’operatore
che mi accompagnava e andai a trovare Maurizio.
Quello che mi propose quasi subito fu di poter suonare ad un concertodella
BBB, o comunque anche solo di partecipare. Il suo invito formalemi fece
molto piacere.
I responsabili della struttura, ai quali avevo riferito di questo incontro
e dell’invito di Maurizio, mi dissero che pur non potendo accettare
lamia proposta per ovvi motivi di regolamento, erano comunque contenti
di farmi sapere che per me Maurizio si era mosso chiedendo il permesso
perfarmi uscire la sera dello spettacolo. Questa per me fu una cosa moltoimportante,
lo stimolo che attendevo ormai da tempo e che mi diede immediatamenteil
giorno dopo la possibilità di risedermi con una chitarra in manoe
di comporre, dopo anni, la prima canzone.
Compresi anche che ero io che non avevo voglia di prendere la chitarrain
mano, ero io che non avevo stimoli, non so bene per quale motivo autodistruttivo,
in tutti gli anni passati mi ero tolto il piacere di suonare e scriverecanzoni.
Il mio percorso è poi terminato in quella struttura per proseguire
in un nuovo centro di reinserimento, un luogo dove le persone che hannoavuto
problemi vari, possono iniziare un percorso di avvicinamento al mondodel
lavoro, prendendosi qualche responsabilità in più a differenza
delle tradizionali comunità protette.
Questo mi ha permesso di iniziare a frequentare SOS Exodus in modopiù
attivo, di partecipare alle iniziative della BBB in modo concreto,di scrivere
sempre più musica, sempre più canzoni nuove edi proporre
le mie canzoni e le mie musiche.
Con la proposta di Maurizio di partecipare al concerto di Natale esuccessivamente
a quello di Capodanno del 2005 cantando due brani, incominciala mia partecipazione
al progetto BBB.
Io vedo questo progetto come una cosa culturalmente valida con deirisvolti
sociali e politici molto importanti. Sono convinto che questoprogetto possa
essere un punto fermo per il mio reinserimento e credo nelprogetto stesso
in sé e per sé.
Dare la possibilità alla gente di esprimere la propria creatività
e il proprio livello artistico, anche se minimo, credo che sia importantissimo
e socialmente utile. Sicuramente in questa iniziativa vedo tutto quelloche
di buono ci può essere in un "fare" qualcosa per gli altri.
STORIE DI SENZA DIMORA
AUTORI E PROTAGONISTI DELLA BARBOON
BAND
ISABELLA LORENTI
Autrice della Bar Boon Band
Il lungo binario si stendeva sotto le vetrate ad arco, sostenute davolte
in ferro bullonate. Sulle fiancate, il marmo, alla galleria dellepartenze,
il marmo, sui bordi dei marciapiedi, il marmo; in fondo si intravedevail
cielo che si stagliava infine fra un groviglio di scambi e binari cheformavano,
come serpenti neri, l’orizzonte.
Lei era al binario 21.
Seduta.
Sotto il suo corpo il marmo, una panchina di marmo, la notte era difficile,
da un binario all’altro, da lì alla sala d’attesa,
a volte su untreno in sosta: cadenzate in un sonno che non dorme mai solo
le solite domande “signora favorisca i documenti !”
“signorina mi fa toccare un seno? Le offro da bere”.
Le due, le quattro, le cinque di notte, sempre a spostarecoperte, a sistemare
borse, qui e là, sempre curiosi intorno. Ilsogno di salire su un
vagone letto, dormire tutta notte e svegliarsi aParigi.
Ma perché poi a Parigi ?
Da lì veniva Isabella che da tre anni girovaga la notte frauna
panchina di marmo e l’altra, fra il sedile di una sala d’aspetto
ela poltrona di un treno in sosta. Fra un dormitorio e un albergo ogni
tanto.Classe 1958, in Francia ci era andata a 3 anni coi genitori, un fratelloe
una sorella, emigranti dalla Calabria. Poi a 17 anni era tornata in Italiae
si era sposata, aveva avuto due figlie, ma il matrimonio era stato unatragedia.
La più grande era tornata in Francia dai nonni e lei erarimasta
col marito Salvatore e la più piccola, Elisa. Salvatorebeveva come
una spugna e maltrattava moglie e figlia. Lei faceva la casalingaquando
i servizi sociali intervennero per togliere Elisa alla famiglia.I maltrattamenti
del marito erano stati gravi su entrambe, ma sulla bambinadi più,
da carcerarlo. Lei accusata di non averla difesa abbastanza.La bambina
andò prima dai nonni in Francia, poi in affidamento einfine in adozione.
Momenti difficili. E Isa si trovò piano pianoa scendere il baratro
della depressione. La stazione divenne il suo habitat.Il binario 21 il
suo indirizzo. L’SOS la sua casella postale. Un mondo,quello
del binario steso come una striscia lunga in fondo alla quale sivede il
cielo, fatto di gente che ti gira intorno, che parte che arriva,che viaggia,
che sosta. Partono a volte con gli occhi pieni di gioia, forsevanno in
vacanza, scendono a volte dal treno con facce tristi o di unanoia profonda,
sbadigliano, cantano, piangono, leggono: un mondo dove nonsei mai solo.
Un mondo che ti gira intorno, di treni che vanno e vengono,con gli annunci
delle partenze e dei ritardi, coi servizi igienici pagatia peso d’oro,
per una pisciata 60 centesimi, con i carrelli di bibite ei panini, con
i ferrovieri che te ne portano qualcuno, con i manager checercano la prima
sull’Eurostar, i figli dei manager, i nipoti dei managere anche
gli accattoni che salgono pure loro per chiedere soldi. Un mondoche va
e che viene di gente che a volte non sa neanche dove andare, dibavosi in
cerca di sesso, di ladri in cerca di portafogli, di balordi persi in un
mondo che, come gli altri, non è il loro. Un mondo dove sentirsi
soli non è possibile, dove la depressione si mischia alla mancanza
di sonno, l’allerta per la sopravvivenza che contrasta con l’abbandono
nel quale vorrebbe lasciarsi andare chi sta molto soffrendo per qualchemotivo.
E Isabella che sta lì seduta, un grande motivo ce l’ha:
Elisa
E Isabella che sta lì senza partire mai, una meta l’avrebbe:
Parigi.
E Isabella che non sa più quale è il treno della vita.
Potrebbe telefonare e riaprire i contatti con qualcuno della sua famiglia
per sapere qualcosa di Elisa che non vede da più di dieci anni eche
è il suo grande peso nel cuore. Quel cuore sdraiato su una pancadi
marmo. Ma non lo fa, per lasciare tutti tranquilli, per non disseppellire
vecchie storie che forse tutti gli altri hanno già dimenticato.Ma
lei no, non ha dimenticato Elisa: gli era sembrato persino di incontrarla
un giorno: era scesa dal Parigi-Milano, aveva gli anni di Elisa, parlavafrancese,
le assomigliava e si erano guardate. Forse era notte, forse eraun sogno.
Forse era lei.
“Maurizio” mi disse “sento che era proprio
lei, Elisa. Il Signore miha fatto un grande regalo se me l’ha
fatta vedere anche solo una volta.Vivo solo per questo, per rivederla e
se un giorno potessi rivederla ledirei “Elisa sono la mamma,
ti ho sempre voluto bene e continueròa volertene per sempre. Non
è stata colpa mia se ci siamo lasciatee ….”
Una grossa lacrima le scorreva sulla guancia mentre una folata di ventoentrata
dal cielo, che sta al confine del mondo della stazione, spazzavail
binario 21 portando con sé foglie d’autunno e i ricordi
di una nostalgia senza fine.
Dov’è il treno per Isabella, persa nei suoi rimorsi,
nella sua rinuncia, negli anni di silenzio, nella separazione senza consolazioneche
sembra apparire eterna da chi ha di più caro al mondo ?
Così scrivemmo insieme “Binario 21”
Nata il 5.12.78 a Milano
Alta snella, bella ragazza. Occhi chiari e profondi.
Anni e anni di ricoveri in ospedale, decine di psichiatri, terapiedure,
terapie morbide, analisi, perizie, pastiglie, diagnosi, ha trascorsola
sua gioventù fra reparti specializzati, corsie di pronto soccorsoe
la strada. Senza sapere perché. Con grinta e la compagnia deglistupefacenti.
Situazioni sempre al limite, affrontate con un carattereche estremizza
sempre i comportamenti. Così ci ha raccontato lasua esperienza.
E poi la chiamano pazzia. Non lo so quale sia stato il giorno in cuiqualcuno
si sia permesso di scrivere libri medici sulla così detta“pazzia”.
Non ci sono pazzi al mondo ! Le creature più deboli cercanodi sopravvivere
creandosi una palla di cristallo in cui stare. C’èchi
viene ancora incatenato negli ospedali e io ero presente … a
modo mioanch’io ero lì: il letto, qualche pillola potente,
qualche puntura… ed ecco fatto, il termine “pazzia”
si presenta. L’eterno fascismo ! La guerra bianca ha lasciato
le sue tracce, ma c’è chi marcia ancoracon tutta l’ignoranza
… e gli ignoti muoiono. C’è chi sopravvive,io
sono una di quelle: ammazzata dai ricordi, intronata dalle urla, intossicatadai
farmaci. Modella di un corpo sfaccettatura di vita. A me il consensoa voi
l’oscuro della mente !
Sharon ha vissuto per anni in strada una condizione difficile, scrivendoe
sperando. Con molta disperazione.
Credendo in un domani anche se non aveva più finestre, il suopiccolo
mondo si era chiuso lasciandola intrappolata. Credeva nelle piccolecose
e sorpresa ammirava un bimbo che guardava stupito i suoi capelli,un po’
consumati, un poco usati. Viveva fra mura non sue, viveva in coperterecuperate
momenti di alta disperazione. Quante voci nella sua testa, quanteinibizioni,
quante incertezze. A volte sembrava vivesse e morisse nellostesso istante
e in quello stesso istante dormiva alcuni momenti in attesadi fuggenti
e barcollanti domani. L’eterno domani. In quel momento perlei
c’era solo confusione e solo una speranza per il futuro. Di condividerecon
te il suo incubo. Forse voleva solo un po’ di attenzione e di
ascolto,forse d’essere compresa. Certo aveva paura di quell’incubo
e aver qualcuno accanto, forse, la rasserenava.
Da molti anni mi chiama affettuosamente papà per aver condivisocon
lei tanti momenti e paure. Ascoltandola e aiutandola quando aveva bisogno.
E’ stata una delle prime autrici della Bar Boon Band e con lei
ho scritto Milano puttana.
Sono nata a Milano nel 1982.
Ho avuto un’infanzia con molti traumi.
Sono nata sieropositiva al virus dell’HIV, e in astinenza
da stupefacenti, perchè i miei genitori facevano uso di droga.
Appena nata, in ospedale, mi hanno disintossicata coi barbiturici.
Nei primi anni della mia vita purtroppo non mi negativizzai dall’HIV,
come succede a gran parte delle persone, più fortunate di me, chenascono
con la trasmissione dell’infezione, ma poi vanno a posto.
Io invece sono rimasta sieropositiva.
Ricordo i miei genitori indaffarati in casa nelle loro faccende didroga,
mia madre era la più accanita e mio padre era un po’ succube.
La mamma faceva una gran confusione fra biberon, pannolini, siringhee
tutti i suoi traffici.
L’ho persa a 4 anni.
La vicina di casa aveva chiamato l’ambulanza perché
sentivache io continuavo ad urlare. Mia mamma era lì sdraiata in
terrain cucina, morta per un overdose di eroina.
Mi portarono via.
Finii in istituto per sei mesi, perché mio padre non potevatenermi,
essendo anche lui tossicodipendente.
La morte della mamma però cambiò tutto.
Mio padre si disintossicò subito, da solo, senza comunità,senza
niente, solo con la sua volontà, pur di riavermi.
Mia nonna, la madre di mio papà, ci riprese a casa tutti e due,perché
suo figlio aveva il diritto di fare il padre.
Vivemmo insieme per dieci meravigliosi anni.
Poi mio padre morì di Aids e rimasi sola.
Il mio unico punto di riferimento se n’era andato.
Di quegli anni con mio padre ho solo ricordi belli, non mi ha fattomai
mancare niente, mi portava sempre in vacanza, ogni week end approfittavaper
portarmi via con lui, mi faceva un sacco di regali. Anche troppi. Ilpiù
bello era stato Teddy l’orsacchiotto parlante.
Mi dava tanto affetto.
In tutti quegli anni papà mi accompagnava sempre all’ospedale
Sacco a fare i controlli, ma lui non si curava.
Poi a un certo punto si era ammalato e si era lasciato andare: nonsi
curava. Lo tormentava il senso di colpa che io fossi nata sieropositiva.
E questo, insieme alla malattia l’ha fatto morire.
Un senso di colpa che a me non aveva mai dato a vedere, ma tutti isuoi
amici mi raccontarono poi che era andata così.
Ricordo che l’estate prima di morire, mi disse “Vuoi
andare al mareo in montagna ?” Io risposi al mare “Va
bene andiamo al mare, anche seio volevo andare in montagna, però
Ludy ricorda che questa èl’ultima volta che andiamo in
vacanza insieme”. Rispose lui. Andammo almare e mi accorsi che
non c’era con la testa, aveva prelevato un saccodi milioni dalla
banca e li aveva dimenticati nell’accappatoio in spiaggia.Poi
faceva cose strane. Era agosto, morì a settembre. Se almenoavessi
esaudito quel suo ultimo desiderio di andare in montagna …!
Rimasi con mia nonna fino ai 18 anni.
Poi ho conosciuto un ragazzo di 14 anni più grande di me chemi
ha portato in casa con lui. A casa con mia nonna le cose non andavanopiù
bene: era arrivato, mio zio, il fratello di mio padre, a viverecon noi.
Voleva fare il padre padrone, prendere il posto di mio padre. E a menon
andava giù
Per cui ho preso la decisione di andare a vivere con quell’uomo
di32 anni. Sapeva che ero sieropositiva e mi aveva accettato così.Io
volevo sempre avere rapporti protetti con lui, ma dopo un po’
fu luiad insistere a non usare più precauzioni. All’inizio
il nostro rapportoandava bene, ma poi la famiglia di lui ha scoperto che
ero sieropositivae hanno cominciato a prendermi in giro, ad aver paura
che il fratello siinfettasse, non dovevo più toccare i loro bambini,
mi facevano usarele posate di plastica a tavola. Io stavo sempre zitta,
zitta. I famigliarifecero di tutto per farmi sbattere fuori di casa e alla
fine lui ha sceltola sua famiglia e da un giorno all’altro mi
sono trovata in strada. Senzaniente, senza neanche un cambio di vestiti,
niente. Come fossi un cane.
Ho provato a tornare a casa da mia nonna paterna. ma mi ha detto “Assolutamente
no”.
Mi sono trovata in giro e sono venuta a vivere in strada alla stazione.
Fortunatamente la mia salute è ancora discreta: ho i valoriimmunitari
molto bassi e una carica virale molto, troppo alta, ma per oranon ho sviluppato
patologie correlate all’Hiv. In ospedale mi hanno dettoche sono
l’unica sopravvissuta dei nati Hiv, non negativizzati del mioanno
di nascita, del 1982. In genere sopravvivono pochi anni.
Dal punto di vista sanitario sono sempre stata curata e seguita moltobene
dall’Ospedale Sacco, che mi da assistenza dalla mia nascita,
ma dal punto di vista sociale sono completamente abbandonata.
Quando ho fatto la domanda di aiuto economico alla ASL di Milano perla
mia patologia, me l’hanno data al 50% perché sono ancora
in età lavorativa e non ho diritto alla pensione.
Sono nata a Milano, ho sempre avuto la residenza a Milano, fino a quandonon
l’ho persa. Ora l’ho rifatta all’SOS per
poter riottenere i miei diritti.
Ma mi dico: possibile che in una città come questa, non ci siaassistenza
sociale per persone nella mia situazione ?
Ho già fatto due inverni in strada alla stazione di Greco. Anchese
fa freddo, andare in un dormitorio non mi risolve la vita. E’
un tampone, ma non è la soluzione. Io vivo in strada con la mia
malattia e credo di avere diritto allo straccio di una casa. Posso ancora
lavorare e darmi da fare, certo non un lavoro di otto ore, non ce la farei
nemmeno a sostenerlo, ma un part time certo; non pretendo che mi mantenga
lo stato o il comune, ma una casa, anche solo un monolocale, diamine !!
E così, anche un po’ per principio me ne sto in strada,
voglio vedere, un domani se crepo sul marciapiede, con che coraggio qualcuno
potrà giustificarsi.
So che è una soddisfazione che può apparire autolesionista,
o poca cosa, ma io non vado a vivere nella sporcizia e nella promiscuità
di un dormitorio, o in una casa di accoglienza dove ti vogliono rieducare
anche ad andare al cesso, come una bambina dell’asilo. Non ho
bisogno diuna comunità di riabilitazione perché non mi sono
mai nedrogata e non bevo neppure. Non ho patologie psichiatriche e allora
perché dovrei andarci ?
Io voglio una casa, un posto al caldo, dove avere le mie cose, dovetrascorrere
la mia vita, credo di averne diritto !!
Ora che sono di nuovo residente a Milano farò la domanda peravere
un alloggio popolare.
Chissà se me lo daranno prima che possa anocora godermelo.
Per adesso dormo insieme ad Antonio, il mio compagno, e il nostro caneBlack,
un lupo alto come una persona, alla Stazione di Greco.
Prima dormivamo sui treni alla Martesana, ma era un rischio troppogrosso,
con bande di extracomunitari, poi in Piazza Duca d’Aosta alla
Stazione Centrale, ma alla fine ci siamo spostati a Greco, che è
un postomolto più sicuro, non ci sono stranieri, balordi e poi ci
sono letelecamere che controllano. Non è un posto molto salutare
perchévicino ci passa il tram 7 e quando frena, la polvere di amianto
dei frenice lo respiriamo tutta ormai da due anni. Dormiamo con tanti cartoni
etre coperte sotto, e un sacco a pelo e una trapunta matrimoniale, sopra.Si
sente più la mancanza del materasso sotto, che non della copertasopra.
La testa la teniamo sotto.
Quest’inverno mi è andata bene, ho fatto “solo”
una polmonite.
Ho visto Mauro X. per la prima volta un giorno di dicembre del 2005.Faceva
un gran freddo.
Entra all’SOS della centrale questo elemento alto, magro,
pelato, affannato con l’accento toscano. Mi chiede se posso trovargli
da dormire e da mangiare.Un barbone come tanti, mi dico. Sui sessant’anni.
Risolviamo subito il problema del dormire, per mangiare gli faccioun
buono per una mensa dai frati. Gli regaliamo anche un bel giubbottodi pelle
marrone che gli va a pennello, gli diciamo che sembra un teddyboys e ne
sembra molto soddisfatto.
Il giorno dopo, e quello successivo, e tutti gli altri giorni, ancoraseguita
imperterrito a venirmi a trovare.
E cosi riesco a metter insieme, attraverso i suoi racconti episodici,una
parte della storia della sua vita. Mauro Ics vuole rimanere anonimo.
A Milano arriva perché ha alle calcagna una banda di cravattari,strozzini
senza scrupoli, i quali, per motivi che tutt’ora mi sono ignoti,l’hanno
ridotto sul lastrico e ancora pretendono.
Mauro X. ha avuto una vita ”normale”, fino a quel
momento.
Frequenta l’università ma a un certo punto, per motivi
che riguardano reati legati al movimento politico degli anni settanta,
se ne va in Somalia da amici per un certo tempo.
Viaggia per altri paesi africani ed europei, si laurea in lingua eletteratura
italiana e risolti i propri problemi con la giustizia, tornain Italia e
insegna in una scuola privata, un liceo.
Quindi riprende a viaggiare: Asia e Africa.
Torna in Italia, vive con una donna e sua figlia, apre una libreriae
si mette a scrivere. Solo da poco tempo ha deciso di pubblicare i proprilavori.
Il primo, una raccolta di sonetti, è già stato edito.
Il secondo, una raccolta di racconti, è di prossima pubblicazione.
Nessuno della sua famiglia sa che Mauro X si trova a Milano, e neppureil
motivo della sua”scomparsa”.
Cosi ha voluto lui per non coinvolgere altri nel proprio rischio.
Ed ora me lo sorbisco io, mezzora tutte le mattine quando viene a scroccarmi
le sigarette: non mi da tregua.
Esordisce cosi “ se non mi dai una sigaretta scateno l’inferno”.
Italiano 53 anni
Nato in Tunisia, padre della Legione Straniera, mamma friulana, vivefino
a due anni in Tunisia. Con Burghiba presidente e ottenuta l’indipendenza
dalla Francia, la famiglia viene espulsa e spedita in un campo profughia
Napoli. Poi si trasferiscono a Milano nel ‘60. Victor viene affidato
a sette anni al collegio per bambini senza famiglia “Fanciullezza
abbandonata”, dove conosce molti adolescenti balordi.
Dopo due anni di collegio viene accolto dallo zio e si trasferiscein
Francia. Vive a Ramboillet alla periferia di Parigi in un Liceo di stato,dove
lo zio era capo cucina. Vede così nascere il ‘68 francese,le
occupazioni delle scuole, gli operai in piazza. La ribalta della vitasi
presenta con nuove luci che illuminano in modo diverso il mondo chedi lì
a poco conoscerà. Ma al ritorno in Italia a 14 anniinizia l’esperienza
della tossicodipendenza nei parchi di Milano con glihippies di allora.
L’esperienza con la droga comporta anche il carceree dura venti
anni. “Una totale perdita dei valori e del senso delle cose”racconta
“il posto che preferivo per iniettarmi eroina era il Duomo diMilano,
un posto tranquillo e non mancava niente. Mi chiudevo in un confessionale,uno
di quelli dedicati agli alti prelati, c’era la luce e la tendina.
Prendevol’acqua con la siringa dalle vaschette, quella benedetta.
Un giorno erolì intendo a fare le mie cose ed entra una signora
che voleva confessarsi,le ho detto di tornare un’altra volta.
Poi alla fine è venuto uno, credo fosse un monsignore perché
sull’abito nero portava un collarinorosso. Mi chiede cosa faccio
lì e alza gli occhi al cielo, mi hadato anche 20 mila lire purchè
non tornassi più”. Poi Victorincontra Sergio, socio del
Canoa Club Milano che lo porta sul Ticino incanoa: Sergio vede in Victor
il figlio più grande che era mortoe gli lancia una sfida. Uscire
dalla droga. La prova è sul fiume,dove secondo Sergio un carattere
difficile come Victor avrebbe trovatopane per i suoi denti: le correnti,
le rapide, le tecniche. Da quindicianni Victor non usa sostanze, anche
se non è mai stato in una comunità. Si è sposato,
ha divorziato, ha una figlia di 19 anni che va all’università.
Anche se ha fatto molti lavori e ha tentato di reinserirsi, riuscendociin
alcuni periodi, non è più riuscito a costruire una sistemazione
stabile e duratura. Da 15 anni vive fra strada e situazioni precarie. Dacirca
un anno è in contatto con l’SOS della Stazione Centrale,
dove ha rincontrato Maurizio che conosceva dal 1970, ancora dai tempi in
cuiavevano iniziato a frequentare il parco e a farsi prima le canne, poi
lepere. Per la BBB ha scritto numerosi testi ed è addetto alla distribuzionedei
cd. Una parte del ricavato della vendita in offerta libera di beneficenza
va a lui che può così pagarsi alcune piccole spese. Prendedi
frequente dei periodi di riflessione e si rifugia in un eremo per averelo
spazio per pensare e ritrovare la serenità.
Daniele, il monaco, ex compagno di storie di droga, è l’unica
persona che conosce i sentimenti e l’interiorità di Victor.
Quandosi presenta alla porta del convento, Daniele sa che è disperato
e gli da la sua cella.
CAPITOLO UNDICESIMO
LA FOTOGRAFIA DELLA STAZIONE NEL 2006
Milano.
Dopo 16 anni eccomi ancora qui in questa stanza che da sul marciapiededi
Piazza Luigi di Savoia, all’SOS della Stazione Centrale.
Quante vite e quante situazioni sono passate da questo posto, insiemealla
mia. Decine di migliaia. Alcune centinaia i volontari.
Guardo le piastrelle consumate dal tempo, i vetri scheggiati, i bagagliabbandonati,
la vernice scrostata in vari punti, le porte che non si chiudonopiù,
le seggiole verdi in plastica leggera a prova di lancio duranteuna rissa,
la fotocopiatrice, il computer, il fax e la stampante che spessonon funzionano,
ma penso, in fondo, che tutto ciò sia secondario.
Il sole filtra lo stesso anche dai vetri impolverati.
Quante cose sono cambiate in 16 anni.
Stiamo mangiando un panino nella pausa, io e Alessandro, il nostrooperatore.
Venne qui da noi come obiettore di coscienza a diciotto annied è
rimasto poi con noi per altri cinque.
Lui l’ha preso da Mc Donald’s, io un kebab piccante
a un chiosco, anchese lo sconsigliano per le emorroidi, soprattutto se
ci bevi insieme acquafrizzante, mi hanno detto dei marocchini.
Gli racconto che quei panini che mangia non sono hamburger di carne,ma
una specie di polistirolo aromatizzato. Li mangia lo stesso.
Bussano alla porta, siamo in pausa ma apriamo lo stesso.
Daniele P, Victor, Ivano, Antonio, Ina e Antonello, Luisa e Stefaniasi
affacciano. Li facciamo entrare.
Nessuno di loro ha patologie particolari, non sono malati psichiatrici,non
sono alcolisti duri, sono ancora giovani, non sono tossici, anche sealcuni
di loro lo erano prima. Sono persone però che vivonoin strada
da tanti anni.
Sono italiani e cinque su otto di loro, hanno la residenza a Milano,presso
il nostro centro. Si saranno abituati a vivere in strada ?
Hanno qualche speranza ?
Ci sediamo in cerchio su dieci seggiole di plastica verde e leggiamoqualche
pezzo di un libro nuovo che sto scrivendo “Il rumore di poveri–
storia della banda dei barba della stazione centrale ”.
La storia gli piace e commentano i pezzi con competenza semantica eriflettono
sul senso delle cose espresse.
Vorrei fargli scrivere quali sono le loro speranze per il futuro egli
consegniamo otto bigliettini e penne sui quali dare le risposte informa
anonima. “Cos’è la speranza”
Raccogliamo i foglietti e li mettiamo in un cappello. Li apriamo:
“Vorrei un salotto con un bel divano e un televisore”
“Conoscere mia figlia che ha ormai 18 anni”
“Spero di mantenere la speranza per quando riuscirò
a sperare”
“Una piccola luce nel buio totale della mia vita”
“Maurizio, fai il serio, sei una persona intelligente, lo
sai già cosa desidero”
”Spero di non diventare come Victor e Antonello”
“La voglia di rinascere nel momento in cui ti senti abbandonato
date stesso”
“Spero di rivedere ancora mia figlia”.
Appendiamo le risposte con delle puntine, al grande disegno coloratocon
tante altre scritte, lasciando le loro speranze, lì sospese.
Poi escono e vanno a mangiare, chi alla mensa dei frati, chi il couscous
dai senegalesi, che stanno in strada in piazza 4 novembre, che “lofanno
buono”.
Io e Alessandro ci spostiamo nell’atrio centrale delle biglietterie
per andare al bar a bere un caffè.
Ci fermiamo, seduti su una panchina di marmo e in un’ora
riusciamoa vedere almeno duecento persone che abbiamo conosciuto in SOS.
Camminano anonime mischiate fra la gente.
Transitano soltanto, non sostano più in quella stazione cheera
stata per anni la loro casa, si spostano. Vestono decorosamente, brandisconocellulari,
sono educatamente anonimi, traditi solo da quel perenne sacchettodi plastica
in mano.
Chissà da dove vengono e chissà dove andranno.
Ma sono lì, come frammenti di vita, passano e vanno.
Come tutte le cose della vita.
Noi torniamo al nostro avamposto della speranza.
E’ ora di aprire.
Per strada incontriamo Marco Rossi e Gigi.
Hanno scritto una nuova canzone.