Lo psicoterapeuta: «La prevenzione si fa parlandone». Linsegnante: «Presidiamo le scuole»
«Mille tentativi di suicidio tra i ragazzi»
Lallarme di Milano: centinaia di casi nascosti ogni anno, è la seconda causa di morte tra i giovani
MILANO - E la seconda causa di morte tra i giovanissimi, dopo gli incidenti stradali. Ma non si dice. I tentati suicidi e i suicidi degli «under 20» vengono negati, sottaciuti e camuffati, per poi finire classificati come semplici seppur tragici incidenti. Perché attorno al drammatico fenomeno si costruisce un muro invalicabile domertà. Poco più di cento tentativi di suicidi in un anno a Milano, secondo le statistiche ufficiali; più di mille secondo le proiezioni degli esperti. Ecco dunque risultare falsate le statistiche e le ricerche epidemiologiche. Che per altro segnalano - dati Istat - Lombardia e Sicilia come le regioni con le punte più preoccupanti. In un Paese che è ultimo in Europa quanto a numero di suicidi, appena prima del Portogallo, ma solo perché più dedito - dicono gli esperti - a nascondere le morti volontarie, soprattutto dei più giovani.
MEGLIO Il SILENZIO - Esiste una congiura del silenzio che avvolge e anestetizza il problema della decisione di farsi del male. Un silenzio fondato sulla vergogna: del protagonista in crisi, della sua famiglia, della scuola che frequenta. Cè chi tra gli esperti è convinto che non parlare delle forme estreme di disagio giovanile sia meglio: perché diversamente si finisce per istigarle, per creare voglia di emulazione, per scoperchiare il pentolone dove ribolle il disagio degli adulti, genitori e professori compresi. E chi invece sostiene «sulla base dellosservazione scientifica» che affrontare e approfondire il tema dellautolesionismo portato allestremo tra i teenager vuol dire fare azione di prevenzione. In testa, il professor Augusto Pietropolli Charmet, psicoterapeuta di fama e di chiaro impegno per salvare i «ragazzi tentati dalla morte». «Nellultimo anno ho seguito personalmente 136 casi di tentato suicidio;
ritengo che sia un numero da moltiplicare almeno per dieci, che vuol dire oltre 1300 nella sola Milano», dice il professore, che è responsabile scientifico del Crisis Center voluto dallassociazione non profit milanese «Lamico Charly». Lassociazione ha firmato un protocollo dintesa con lUfficio scolastico regionale della Lombardia. Offre gratuitamente, da ormai due anni, ora anche con il sostegno economico della Fondazione Umana Mente, assistenza specialistica per la prevenzione e la gestione del postvention (ovvero dellavvenuto evento traumatico) a scuola e allinterno delle famiglie.
SCENARIO IDEALE - «La scuola è lo scenario da presidiare per capire i ragazzi in crisi e quindi prevenire i loro gesti estremi. E la scuola il palcoscenico ideale dove esprimere il loro disagio più profondo», spiega la professoressa Mariagrazia Zanaboni, trentanni di insegnamento di lettere classiche, questanno premiata con la Rosa Camuna della Regione Lombardia e nel 2003 con lAmbrogino dOro dal Comune di Milano, ma anche un nipote bello e bravo e di famiglia benestante morto suicida nel 2001. «Gli insegnanti e i dirigenti scolastici dovrebbero fungere da antenne per captare i segnali dallarme del disagio dei propri studenti e quindi essere in grado di disinnescarli», conviene Marina Valassuga, vicedirettore dellUfficio Scolastico Lombardo.
SEGNALI DALLARME - Segnali dallarme che vengono però per lo più negati e occultati. «Gli insegnanti sono ormai spenti nella loro passione educativa dalle varie riforme, hanno difficoltà a guardare negli occhi i ragazzi e a decifrare il loro disagio», sostiene Ermelina Ravelli, preside della scuola superiore Capirola di Leno, in provincia di Brescia, dove Desirée Piovanelli venne rapita e uccisa durante un tentativo di violenza sessuale. Ma spesso i ragazzi fanno gesti estremi senza dar segnali delle loro intenzioni. «Ho avuto un ragazzo morto suicida tre anni fa che era il più bello e il più bravo della scuola. Un ragazzo di successo e con grandi talenti», racconta Andrea Boselli, preside del liceo Galilei di Legnano. Molti i casi di disagio che ha visto nel suo istituto: «E il problema più grande consiste sempre nel far uscire allo scoperto la famiglia: è difficile riconoscere il disagio del proprio
figlio perché lo si vive come una propria colpa».
Gloria Pozzi
11 marzo 2005 |
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