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  Wednesday 30 March 2005 16:48:04  
From:
Alessandro Rizzo   Alessandro Rizzo
 
Subject:

Il bel paese sul viale del tramonto

 
To:
Alessandro Rizzo LD   Alessandro Rizzo LD
 
Declino industriale
Il bel paese sul viale del tramonto
di Luciano Gallino
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento che il professor Gallino ha preparato in occasione dell’incontro sulla lotta al declino organizzato dalla Cgil
Sul tema del declino industriale del nostro paese circolano varie affermazioni che si possono compendiare come segue: 1) Il declino non esiste; 2) quel che sembra un declino è, in realtà, una trasformazione del sistema economico; 3) il fatto che l’industria italiana sia per metà in mani straniere non è un segno di declino: l’importante è che la produzione continui a svolgersi nel nostro paese; 4) anche se l’industria dovesse scomparire non importa: il futuro appartiene ai servizi. Per ciascuna di tali affermazioni riassumerò le ragioni per cui mi pare che esse non poggino su basi solide.

1) Tra i segni di declino che non si possono ignorare vanno collocati la crescita esigua del Pil; la stagnazione della produzione industriale in quasi tutti i principali settori; la diminuzione in un decennio di oltre un punto e mezzo della quota italiana delle esportazioni nel mondo, dal 4,6 al 3 per cento.

Per documentarsi sul declino sono inoltre disponibili molti rapporti sullo stato della nostra economia che escono da centri di ricerca europei, sia pubblici che privati. Nell’insieme essi dicono che la mancanza di competitività dell’economia italiana è dovuta a serie debolezze strutturali. La prima delle quali è che il 95 per cento delle imprese italiane hanno meno di 10 dipendenti, per cui non sono in grado di fare né ricerca & sviluppo ad alto livello, né formazione del personale.

2) Le nove imprese industriali italiane citate nell’elenco delle Global 1000, le prime mille società del mondo classificate in base al loro valore di mercato, producono i beni e i servizi descritti dalla loro ragione sociale, più o meno come hanno fatto sin dalla nascita. Detto altrimenti, esse non si sono trasformate affatto, nel senso di avere costituito entro di sé sotto-settori che, a fronte di una crisi di lungo periodo delle produzioni tradizionali, assicurerebbero comunque la sopravvivenza e la crescita del gruppo.

Resterebbe, dalla parte dell’ipotesi “non declino ma mi trasformo”, l’obiezione che le imprese industriali italiane sono ormai quasi tutte piccole-medie imprese, nessuna delle quali ha una stazza sufficiente per entrare nell’elenco delle Global 1.000. Il che equivale a dire che l’industria italiana c’è, ed è solida, ma le sue unità hanno – volutamente e felicemente – dimensioni troppo limitate per poter essere captate dalle grezze lenti delle classifiche internazionali. Da cui segue una stravagante implicazione: l’Italia sarebbe l’unico paese al mondo che insiste a definirsi industriale non avendo più imprese industriali capaci di far ricerca e sviluppo su larga scala; di reggere alla concorrenza internazionale grazie alla novità e alla qualità dei suoi prodotti, piuttosto che alla compressione del costo del lavoro; e di mantenere in mano propria, piuttosto che consegnare a gruppi economici di altri paesi, i centri di governo delle loro attività.

3) Negli ultimi mesi si sono susseguite notizie relative alla chiusura o al ridimensionamento di aziende o stabilimenti controllati da multinazionali straniere, con perdita immediata o prevedibile di migliaia di posti di lavoro. Sono segnali di una situazione del tutto anomala che caratterizza la nostra industria. L’Italia è infatti il solo paese Ue in cui quasi metà dell’industria chimica, farmaceutica, alimentare, elettrotecnica di gamma alta, degli elettrodomestici, della telefonia mobile ecc. è controllata da imprese estere. Anche la siderurgia ha imboccato tale strada, con la cessione delle acciaierie Lucchini ai russi della Severstal, dopo la cessione tempo addietro della Acciai Speciali Terni alla ThyssenKrupp.
L’evidenza suggerisce che l’Italia riceve dall’estero pochi investimenti, e ne effettua ancor meno in altri paesi. Nel 2003 essa ha ricevuto appena 16,4 miliardi di dollari di investimenti diretti all’estero (Ide), e ne ha effettuati la miseria di 9,1. La Francia ne ha ricevuti quasi tre volte tanti, 46,9 miliardi di dollari, e ne ha effettuati quattro volte di più, cioè 57,2 miliardi. Inoltre, come avviene da tempo, gli investimenti ricevuti dall’Italia non sono stati in quasi nessun caso del tipo green field, consistenti cioè nell’apertura dal nulla di nuove unità produttive, con relativa creazione di posti di lavoro addizionali. Sono consistiti semplicemente nell’acquisto di aziende già in attività, con effetti minimi, e talora negativi, sull’occupazione.

Sembrerebbe quindi che aver passato nelle mani di imprese estere quasi metà dei nostri principali settori industriali ci abbia portato in casa il peggio della globalizzazione, cioè la dipendenza da soggetti economici lontani e irresponsabili; un avvìo, in altre parole, allo stato di un paese che rischia di essere, al tempo stesso, sia colonizzato che povero.

4) Ad onta degli apologeti del post-industriale e della società dei servizi, l’industria manifatturiera rappresenta tuttora, e continuerà a essere nei prossimi decenni, un settore centrale dell’economia. Chi insista sul fatto che l’occupazione nell’industria è scesa, con variazioni da un paese all’altro, dal 30-35 al 15 per cento in pochi decenni, e su questa base formula una diagnosi di scomparsa dell’industria nei paesi sviluppati, è vittima per tre quarti di un abbaglio statistico. Un recente documento della Commissione Europea, dedicato alla “La politica industriale in un’Europa allargata”, coglieva bene il problema. In una sezione dedicata a “L’industria come fonte della ricchezza in Europa” si leggeva infatti: “In anni recenti la struttura produttiva europea ha subito notevoli trasformazioni. La quota del settore dei servizi nella produzione dell’Ue è passata dal 52 per cento nel 1970 al 71 nel 2001, mentre nello stesso periodo la quota dell’industria manifatturiera è diminuita dal 30 al 18 per cento” … Per effetto di questa ‘terziarizzazione’ i politici hanno riservato poca attenzione all’industria manifatturiera, in base alla diffusa ma erronea convinzione che nell’economia basata sulla conoscenza e nella società dell’informazione e dei servizi l’industria manifatturiera non svolga più un ruolo essenziale …”. Di fatto, tanto la quota complessiva sul Pil del valore aggiunto dell’industria manifatturiera e dei servizi alle imprese, che in gran parte sono diretti proprio ad essa, quanto la quota complessiva dell’occupazione nei due settori, sono aumentati tra il ‘91 e il ‘99 nei paesi Ue: dal 66,4 al 68 per cento per quanto riguarda il valore aggiunto di manifattura e servizi all’imprese, e dal 57,9 al 58,4 per quanto attiene all’occupazione dei due settori sul totale degli occupati. Ne segue che al centro di qualsiasi politica industriale dovrebbero essere tuttora collocati i problemi della grande industria manifatturiera. Quella appunto che in Italia rischia di scomparire. Con possibile grave danno anche per il settore dei servizi, visto che due terzi di essi sono richiesti dall’industria.

Posto che il declino industriale dell’Italia sembra davvero esistere, si tratta di vedere come si potrebbe uscirne. Un primo passo dovrebbe consistere nel farsi venire delle idee in tema di politica economica e industriale. Un secondo passo, altrettanto indispensabile, starebbe nel predisporre i mezzi per attuarle. E qui la strada si presenta davvero impervia. Le idee al riguardo non nascono dal nulla. Nascono – così accade in Francia, Germania, Gran Bretagna – da un dialogo sistematico e permanente tra ministeri, enti territoriali, atenei, istituti di ricerca scientifica e tecnologica pubblici e privati, sindacati, associazioni imprenditoriali, unioni professionali. Un dialogo diretto a far emergere quali sono i punti di forza e di debolezza di un’economia, e quali sono gli spazi in cui concentrare le risorse disponibili per avviare poli di competenza e reti di sviluppo con elevati livelli di integrazione interna ed esterna. Duole dirlo, ma i duecento distretti industriali italiani – sulle cui virtù salvifiche sono stati molti a illudersi – al confronto con meraviglie industriali come il polo aeronautico di Tolosa, la Optics Valley a sud-est di Parigi, o il distretto biotecnologico dell’area di Monaco di Baviera, appaiono, forse con una decina scarsa di eccezioni, in ritardo di trent’anni. E non già perché da noi manchino tecnici, scienziati, imprenditori e lavoratori di prim’ordine. Piuttosto perché manca sia l’iniziativa che un’idonea strumentazione organizzativa da parte del governo e dello Stato. Se mai venissero elaborate, quelle tali idee di politica economica avrebbero bisogno di organi operativi per essere tradotte in realtà. Ma quali ministeri potrebbero operare in Italia a tale scopo, con i propri mezzi o inventando nuove forme di organizzazione? Il ministero dell’Economia gestisce il patrimonio di cui lo Stato è ancora proprietario con lo spirito imprenditoriale di un amministratore di condominio. Basti pensare alla vicenda Alitalia, alla cui crisi decennale il ministero ha semplicemente assistito, anche quando controllava ancora il 100 per cento del capitale. Il ministero delle Attività Produttive si articola in ben 11 direzioni generali, di cui una sola, la Direzione generale per lo sviluppo produttivo e competitività, include tra le sue competenze l’“elaborazione e attuazione e interventi di politiche industriali nazionali e internazionali”, insieme con decine di altre. In Francia si osserva invece come, a sottolineare l’importanza che ad essa viene attribuita nell’organigramma ministeriale, la politica industriale sia affidata a un ministro delegato, dei tre che in tutto costituiscono, insieme con il ministro segretario di Stato, il consiglio direttivo del Ministère de l’Economie, des Finances et – vedi caso – de l’Industrie.

Quanto al nostro ministero per l’Innovazione Scientifica e Tecnologica, esso si occupa quasi esclusivamente di informatica, una tecnologia certo di importanza primaria, se non fosse che ne esistono oggi decine di altre parimenti importanti. Infine il ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica e Tecnologica appare impegnato in prevalenza a produrre norme e decreti, compresi quelli che istituiscono distretti tecnologici che avranno forse un brillante avvenire, ma per ora sono formati da valenti quanto ristrette pattuglie di ricercatori e di tecnici.
Una politica volta a rilanciare su nuove basi la capacità industriale italiana dovrebbe dunque cominciare con una profonda riforma della struttura e delle competenze dei ministeri. E forse anche con l’istituzione di apposite agenzie per lo sviluppo di poli o reti di competenza, tipo la Délégation à l’aménagément du territoire et à l’action régionale costituita sin dal 1963 in Francia. Su questo punto, naturalmente, gli ostacoli sono politici, ben più che economici. E gli interventi governativi per rilanciare la competitività di cui si è finora parlato sembrano un placebo, più che l’energica cura di cui il paese avrebbe bisogno.
(www.rassegna.it, 24 marzo 2005)


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