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  Sunday 15 May 2005 12:09:24  
From:
Alessandro Rizzo   Alessandro Rizzo
 
Subject:

PERCHÈ IL FASCISMO - Lelio Basso

 
To:
ANPI   ANPI
 
Care e cari,
non necessita di introduzione lo scritto di Lelio Basso, costitutore della famosa "clausola Basso" che generò l'articolo 3 della nostra Costituzione e che dette carattere "interventista" in senso economico alla nostra Repubblica per una democrazia sostanziale e reale dove l'eguaglianza sostanzaile dei cittadini sia effettiva e i diritti civili, riconosciuti sulla Carta, siano realmente attuabili ed esercitabili dai vari ceti sociali, soprattutto i più indigenti. La tassazione progressiva, l'esproprio pubblico per interesse collettivo e generale, l'autoamministrazione partecipativa dei lavoratori al patrimonio pubblico: è il carattere fortemente socialdemocratico, antifascista in senso ideale e democratico progressivo del cambiamento che viene previsto precettivamente dalla Costituzione, che sriassume i moventi di libertà e giustizia intrisi nella Resistenza che fu rivoluzionaria perchè per il cambiamento.
Lelio Basso fu un grande antifascista raffinato intellettuale e giurista di impostazione culturale e formativa marxista: ed è dal marcismo che considera la genesi di ogni fenomeno sociale e storico come economica e vede la lettura della storia come un divenire di lotta fra classi diverse che si propongono non solo la volontà di dominare la società, ma che si prospettano la volontà di divenire costruttori di un proprio ideale materialista, perchè di origine economico produttivo e del rapporto intersociale derivante. Il fascismo nasce come predominio della classe capitalistica sulla classe lavoratrice e della mistificazione del carattere della mitizzazione, sia essa religiosa, sia essa nazionalistico-razziale, utile populisticamente a imbonire la massa, che soffre delle condizioni necessariamente disastrose di una conduzione prepotente e prevaricatrice autoritaria dello stato. La Resistenza divenne fenomeno di massa, invece, nel momento in cui furono gli operai e i lavoratori, stremati da anni e anni di privazioni di qualsiasi genere, da quelle civili e umane a quelle economiche e sociali, stremati da una guerra colonialista e folle, a considerare doveroso il cambiamento radicale che apportò alla nascita della Repubblica antifascista, antitesi dell'intollerabile e repressivo fascismo e del dominio sanguinario e barbaro nazista.
Buona lettura
Alessandro Rizzo
Moderatore Forum ANPI - Rete Civica di Milano



Lelio Basso
Senatore della Repubblica

PERCHÈ IL FASCISMOhttp://www.leliobasso.it/documento.aspx?id=1892a9048c8cca31548e7c8ad67754e8
Credo che non si possa considerare né il fascismo né la democrazia secondo schemi di tipologia astratta. La storia è un susseguirsi permanente di equilibri, anzi, meglio, è una ricerca permanente di equilibri fra diverse classi sociali, diverse tendenze politiche, diverse ideologie, che sono in permanente contrasto ma al tempo stesso devono continuamente trovare un punto d’equilibrio perché la società non precipiti nel caos. L’elemento motore di questo processo storico, che porta a continui spostamenti di forza, a continui conflitti e a continui armistizi, è la crescita delle forze produttive, è l’incidenza che questa crescita produce sui rapporti di produzione, è in ultima analisi il processo di accumulazione del capitale che coridiziona i rapporti fra le classi, il potere della classe dominante, l’ampiezza del consenso. Le prime fasi di questo processo d’accumulazione sono sempre estremamente dure per gli operai e i contadini che ne sopportano il peso, e questo tanto in regime capitalista quanto in regime socialista. Sarebbe impossibile in queste condizioni pensare a una democrazia autentica: se ne possono in alcuni casi rispettare le facciate esteriori (il suffragio universale presso un popolo incolto o immaturo, o il Parlamento solo come sede di registrazione di decisioni prese dall’oligarchia dominante: grande capitale, alte gerarchie burocratico-militari, dirigenza politica, in qualche caso Chiesa), ma è chiaro che il processo di accumulazione non può essere abbandonato dalla classe dominante alle sorprese di un’elezione democratica. Ciò è ancora più difficile a misura che si va verso forme di investimento sempre più colossali e a sempre più lungo termine, magari in terre straniere, come oggi accade: tanto più forte diventa allora l’esigenza non solo di un regime e di un ordinamento giuridico stabili su cui si possa contare, ma anche di un congelamento di ogni forma di lotta di classe che possa alterare i rapporti di forza. Solo quando le classi lavoratrici sono soddisfatte della situazione sociale e del loro tenore di vita - e ciò richiede un alto grado di prosperità - la democrazia diventa possibile.
Dittatura, sviluppo e sottosviluppo
Data questa premessa, possiamo trarne una prima conseguenza e cioè che se è vero che regimi fascisti, o, per meglio dire, dittatoriali, sono più consoni a paesi economicamente arretrati, non è vero il reciproco e cioè che i paesi sviluppati debbano essere democratici. Infatti anche i paesi sviluppati conoscono crisi, recessioni, squilibri, e quando la macchina dell’accumulazione e del profitto s’inceppa, il capitalismo è sempre tentato di ricorrere ad una maggiore utilizzazione dello Stato, ad un maggiore sfruttamento del potere politico. In linea generale si può soltanto affermare che la natura e il ritmo del processo di accumulazione condizionano il grado di consenso e quindi anche tutte le articolazioni della vita sociale. Infatti la classe dirigente potrà, se ciò le è possibile, assicurarsi il consenso anche delle classi subalterne attraverso una condizione di vita economica, sociale e culturale accettabile; potrà, se le condizioni non sono accettabili, per esempio perché si devono tenere bassi i salari, garantirsi egualmente il consenso attraverso la mediazione della Chiesa o di miti, soprattutto nazionalistici, diffusi dai mass media; in difetto anche di questo, ricorrere a forme di dittatura militare e poliziesca.
Naturalmente si tratta di esemplificazioni sommarie: nella realtà i rapporti fra il processo di accumulazione, il grado di consenso e le mediazioni sociali che assicurano il funzionamento del sistema possono essere le più varie e offrire combinazioni apparentemente contraddittorie, tanto più che anche la classe lavoratrice può intervenire con la sua forza organizzata e costringere la classe dominante a compromessi. Il punto centrale è tuttavia che la classe dirigente non può in nessun caso perdere il controllo del meccanismo del profitto e del processo di accumulazione, e che ciò esige da parte sua un grado, maggiore o minore a seconda delle circostanze, di controllo sul potere statale in quanto lo Stato è da sempre promotore indispensabile di questo processo. Contrariamente infatti a un’opinione comunemente accolta che il vecchio capitalismo liberale rifiutasse l’ingerenza dello Stato, al quale spettava soltanto il compito di assicurare l’ordine interno e la difesa esterna, cioè la cornice entro cui il ceto imprenditoriale potesse svolgere liberamente la propria attività, la più recente storia economica tende a porre l’accento sul ruolo che lo Stato ha sempre avuto nel processo di sviluppo. Non solo, ma è comunemente riconosciuto che questo ruolo tende a crescere sia nei paesi a sviluppo capitalistico ritardato, come furono la Germania, l’Italia, il Giappone, la Russia, sia nei periodi di crisi o di transizione in cui il meccanismo normale del sistema si inceppa, sia infine nei paesi a capitalismo sviluppato dove le dimensioni dell’impresa e la complessità del processo produttivo tolgono elasticità al sistema.
In senso molto lato, e sempre con l’avvertenza che lo spazio mi obbliga allo schematismo, posso distinguere diverse tappe di questo sviluppo conseguenti a diversi periodi di crisi. In primo luogo la crisi che sboccò nella rivoluzione del 1848-49, e da cui il capitalismo, contrariamente alle previsioni di molti, uscì trionfante di tutte le resistenze precapitalistiche avviandosi a celebrare trionfi fin allora sconosciuti: l’intervento statale si palesò allora necessario in molte forme, e in larga misura per l’impulso che in vario modo diede in ogni paese alla costruzione della rete ferroviaria, supporto principale di questo sviluppo. La seconda crisi importante fu la lunga depressione dell’ultimo quarto del secolo scorso, da cui uscì definitivamente debellato il capitalismo concorrenziale classico, e che si chiuse con l’avvento dei monopoli e dei trusts, con l’affermazione del capitale bancario e finanziario, soprattutto in Germania, con l’esplosione imperialistica dell’ultimo decennio del XIX e degli inizi di questo secolo: in questo processo di trasformazione l’intervento statale fu molto importante in campo doganale, finanziario, di commesse, sovvenzioni, agevolazioni, ecc. Infine l’ultima grande crisi fu quella degli anni ‘29 e successivi, da cui uscì il New Deal negli USA e la politica keynesiana della maggior parte dei governi europei, ma che soprattutto fece dell’intervento statale la condizione quotidiana indispensabile per il sostegno dell’economia e il funzionamento del sistema e quindi rese necessario l’interpenetrazione organica del potere economicoo e del potere politico.
La sostituzione dello Stato
Coloro che pertanto hanno visto nel fascismo soprattutto uno strumento padronale di lotta contro la classe operaia hanno vista solo una parte, certo la più appariscente, ma forse non la più importante storicamente, del problema: sotto questo aspetto lo videro soprattutto in Italia gli agrari e all’inizio anche taluni settori industriali, ma quando si scrive che la classe industriale non aveva nel 1922 nessun interesse alla conquista fascista dello Stato, perché la classe operaia era già disfatta, si dimentica che la classe operaia era, sì, in fase di riflusso da almeno un paio d’anni, ma che quello che era necessario alla classe industriale era l’abbattimento dello Stato liberale. Essa non aveva da sola la capacità di riconvertire l’industria di guerra in industria di pace e tanto meno di superare la crisi sopravvenuta nel dopoguerra, abituata com’era da sempre a vivere di aiuti statali.
L’obiettivo della marcia su Roma non era quindi per gli industriali l’abbattimento del movimento operaio, ma la sostituzione dello Stato liberale con uno più ligio agli interessi industriali. E questo non tanto a causa delle misure fiscali di Giolitti che colpivano fortemente il capitale e che Mussolini si affrettò ad annullare, non tanto a causa di alcuni interventi economici, come il monopolio delle assicurazioni sulla vita che Mussolini restituì subito all’impresa privata, ma soprattutto a causa di un mancato intervento di salvataggio, quando la crisi investì i massimi colossi dell’industria e della banca (Ansaldo, Ilva, Banca Italiana di sconto) che il governo liberale abbandonò al proprio destino e lasciò crollare. Il ceto imprenditoriale giudicò allora che con lo Stato liberale i suoi abituali tramiti con l’apparato statale non erano più in grado di assicurare il mantenimento del meccanismo del profitto, e che, se si voleva salvare l’economia, bisognava cambiare regime
[2].
In altre parole il regime liberale deve necessariamente appoggiarsi su un certo grado di consenso e deve lasciare sussistere una dialettica di opinioni e posizioni politiche e quindi un certo margine di dissenso e di critica. In queste condizioni un raccordo fra il potere economico e quello politico non può essere diretto: al contrario, ha bisogno di una serie più o meno ampia di mediazioni a seconda delle condizioni specifiche in cui opera e del grado maggiore o minore di liberalismo o democrazia che il regime consente. Quando le condizioni di vita del grande capitale si fanno difficili, quando il meccanismo del profitto si inceppa e solo pronti e adeguati interventi statali, o addirittura una politica organica dello Stato finalizzata ad assicurare il profitto, possono rimetterlo in moto, il raccordo deve essere diretto e pronto e le mediazioni diventano allora difficili e pericolose perché rischiano di create diaframmi fra potere economico e potere politico e, conseguentemente, di frenare i meccanismi di intervento. È a questo punto che la dittatura diventa necessaria per il grande capitale. Certo anche in regime di dittatura la mediazione della classe politica è necessaria, ma si tratta di quella mediazione soltanto, e soprattutto si tratta di una classe politica il cui atteggiamento è conosciuto e che non è sottoposta alle incognite della democrazia.
Mi sembra importante che gli storici e in genere gli studiosi, e in particolare gli storici del fascismo, si rendano conto che questo è l’aspetto decisivo della vittoria fascista: non, come è stato troppo spesso ripetuto, la rivolta dei ceti medi che fornì parte della truppa d’assalto e la tecnica squadristica messa in atto dagli “arditi” reduci della guerra, e su cui in un primo momento puntò Mussolini che di quel ceto medio era tipica espressione (figlio di un artigiano e diventato intellettuale, cioè maestro e professore di francese); non la repressione agraria che fu un fenomeno autonomo venutosi a fondere con il fascismo mussoliniano ma rimasto con esso in tensione, e che anch’esso mise a disposizione in larga misura la base squadristica con il sottoproletariato agricolo della valle padana; e infine neppure gli industriali in semplice funzione di lotta di classe, cioè in funzione antioperaia. L’aspetto decisivo - non mi stancherò di sottolinearlo perché è un aspetto vivo più che mai nella realtà di oggi, per esempio, nelle dittature dell’America latina che sono opera delle multinazionali operanti in quei paesi - fu la necessità di uno stretto legame fra grande industria e potere politico, che la guerra aveva reso irrimandabile per le deboli forze del capitalismo italiano, che non trovava in sé sufficiente iniziativa ed energia
[3].
La prima guerra mondiale
Come hanno rilevato storici quali Procacci e Cafagna, lo sviluppo ritardato del capitalismo italiano aveva avuto come necessaria conseguenza un alto grado di concentrazione dell’apparato produttivo nonché la nuova funzione dello Stato e del potere politico di “componente essenziale del progresso economico” (secondo l’espressione di Cafagna, ma io preferirei dire “dell’accumulazione capitalistica” che non corrisponde automaticamente a progresso economico). Di questa nuova esigenza si erano fatti interpreti i nazionalisti di Corradini, Federzoni e Alfredo Rocco, e quest’ultimo aveva teorizzato in anticipo quello che sarebbe poi diventato lo Stato fascista per poter assolvere a questa funzione.
La guerra accelerò questo processo. Da un lato essa provocò un’inflazione dell’apparato produttivo che si trovò di fronte a commesse statali (soprattutto di armi e munizioni, ma anche di automobili e mezzi di trasporto in generale, vestiario, approvvigionamenti vari, ecc.) superiori alle sue capacità produttive ante-guerra e dovette moltiplicarsi per adeguarsi rapidamente alla nuova situazione che comportava lauti guadagni ma al tempo stesso creava una situazione precaria che avrebbe potuto sopravvivere, dopo la guerra, solo grazie ad ulteriori interventi statali di diversa natura (se non più commesse belliche, sussidi o aiuti in altra forma). I maggiori beneficiari della situazione bellica furono naturalmente i siderurgici e i meccanici (Ansaldo, Ilva, Breda, Fiat, ecc.), che fecero anche i maggiori aumenti di capitale e i più grandi balzi di capacità produttiva. Come osserva Procacci, “questo grande sviluppo quantitativo implicò anche un mutamento qualitativo dell’organizzazione produttiva italiana”, “contribuendo così ad accentuare la dipendenza delle industrie protette, e di quella siderurgica in particolare, dall’azione dello Stato, e per converso a render quest’ultimo più esposto alla pressione dei grossi interessi privati costituiti”.
[4]
Ma lo Stato liberale italiano, osserva ancora il Procacci, e il suo governo erano abituati ad occuparsi prevalentemente di amministrazione ed erano impreparati ad affrontare stabilmente questi compiti, che la fine della guerra rese invece drammaticamente urgenti. L’industria non era in grado di mantenere il livello raggiunto dalla produzione, una volta cessate le forniture di guerra: essa non dominava mercati stranieri e quello interno era troppo limitato per poter alimentare un’industria cresciuta, rispetto alle precedenti proporzioni, in modo macroscopico. Questa debolezza di fondo rendeva la situazione industriale italiana particolarmente vulnerabile, come confermò la crisi del 1920-21, che fece diventare sempre più insistenti le richieste degli industriali per una diversa politica governativa, che, però, come abbiamo detto, trovò insensibili le orecchie dei governanti liberali.
Italia e Germania
E quando si parla delle differenze fra il fascismo italiano e quello tedesco, perché l’Italia era un paese industriale debole e la Germania, per contro, forte, si dice una cosa certamente vera sotto molti aspetti, ma si dimenticano due punti fondamentali che ne fanno un fenomeno comune negli aspetti essenziali, e cioè, in primo luogo, che tanto in Germania quanta in Italia il capitalismo si era sviluppato sempre all’ombra dell’intervento statale, e aveva stretto tali legami con il potere politico da non potervi rinunciare[5]; in secondo luogo che in entrambi i casi il meccanismo di sviluppo si era inceppato: in Italia, paese più debole, per la crisi, minore, del 1921, e in Germania per la grande crisi degli anni ‘30 che aveva creato un’immensa disoccupazione, e quindi, oltre a tutto, aveva messo a disposizione una massa di spostati che potevano servire proprio alla conquista del potere, come in Italia questa massa era stata formata in parte da ceti medi urbani o agricoli, e in parte da sottoproletariato rurale. Perché mi sembra evidente che, se non si vogliono creare confusioni, non si può chiamare fascista qualunque regime dittatoriale, come per esempio il Brasile, ma si deve riservare questa denominazione a quei regimi che sono contrassegnati da questo triplice aspetto: la conquista del potere statale da parte di gruppi egemonici dell’economia, l’appoggio dato ad essi da un partito di massa formato in gran parte da elementi spostati o emarginati, e infine l’esercizio dittatoriale del potere.
Ceti medi “emergenti”?
Sulla natura di questo partito di massa che diede vita al primo fascismo urbano si è discusso molto in Italia e si è parlato di ceti medi “emergenti”. Ora se l’aggettivo indica dei ceti che stanno per essere travolti dall’ondata della crisi e vogliono riemergere dal naufragio, il termine è esatto; ma se con la parola “emergenti” si intende invece, come pare voglia intendersi, ceti avanzati, progressivi, come potrebbe essere stata più tardi la tecnocrazia, credo che la definizione sia totalmente destituita di fondamento.
Io li ho conosciuti questi ceti medi, perché era il mondo a cui apparteneva la mia famiglia, a cui appartenevano le famiglie dei miei compagni di scuola, il mondo che io frequentavo, con cui discorrevo, litigavo, magari venivo alle mani - o alle bastonate - ma di cui per anni ho conosciuto le idee e i sentimenti. Parlare di ceti medi emergenti significa parlare di ceti nuovi, che per le qualità, la cultura, l’evolvere della situazione, sono in una fase ascendente nella scala sociale, per ricchezza o potere. Invece i ceti medi di cui parliamo erano i soliti ceti medi italiani eternamente irrequieti e scontenti, la cui condizione io ho analizzato più volte in diversi saggi e che qui mi limito a riassumere sinteticamente.
L’Italia è un paese che non soltanto è arrivato tardi allo sviluppo industriale, ma in cui la crescita politica ha anche preceduto la crescita economica, creando squilibri che hanno costituito un ostacolo insuperabile allo sviluppo e quindi alla democrazia. Mi riferisco al fatto che non solo l’unità italiana, a differenza di quella tedesca, si è realizzata sotto la spinta di motivi sociali e ideologici, ma senza una base economica che la giustificasse e soprattutto fosse in grado di sorreggerla; che dopo la unificazione l’Italia ha cominciato a voler esercitare un ruolo di grande potenza, e addirittura di potenza coloniale, senza averne neppure lontanamente i mezzi; che questo iato fra lo sviluppo politico e quello economico ha assorbito quasi tutte le risorse a beneficio del primo: basti pensare che dall’unità al 1940 (e quindi senza contare la seconda guerra mondiale) le sole spese militari hanno assorbito quasi la metà della spesa statale complessiva, e il 20% è stato speso per interessi del debito pubblico e quindi ancora in gran parte per le spese militari precedenti, per rendersi conto che per investimenti industriali e socio-culturali rimanevano soltanto le briciole. Ciò da un lato ha condannato i lavoratori italiani a sopportare più duramente e più a lungo le conseguenze dell’accumulazione, ha obbligato la borghesia industriale a vivere dell’aiuto statale, ma soprattutto ha creato una situazione impossibile ai ceti medi. Quelli tradizionali, infatti, come gli artigiani, erano rovinati dallo sviluppo dell’industria che, però, era troppo lento e insufficiente per create nuovi posti di lavoro e assorbire negli impieghi i vecchi ceti medi; quelli nuovi, soprattutto i giovani diplomati o laureati, magari figli di bottegai o di operai, che speravano di salire nella scala sociale, erano condannati ad una vita incerta e senza prospettive adeguate. Donde il continuo stato d’irrequietezza che ha caratterizzato in Italia questo ceto, che verso la fine del secolo si riversò in gran parte nelle file socialiste, e, viceversa, nel periodo giolittiano, si spostò verso le nuove correnti irrazionalistiche e nazionalistiche. È da questo stato d’animo che è nata in gran parte la spinta all’intervento in guerra, e più tardi la spinta al fascismo.
La piccola borghesia
Non era difficile a un giovane come me, impegnato, curioso, attento, assetato di riempire i vuoti della sclerotica cultura scolastica, ritrovare nella protesta fascista gli echi confusi della protesta precedente, la protesta di una piccola borghesia mortificata, che cercava di riscattare la grettezza della vita quotidiana dell’“Italietta giolittiana” nell’evasione del mito: quello nietzschiano del superuomo e la sua retorica imitazione dannunziana; quello nazionalistico, destinato da un lato a cancellare l’onta delle sconfitte di Lissa e di Adua e a rinverdire la grandezza romana, e dall’altro a riaffermare il principio dell’autorità dello Stato capace di riassorbire nelle strutture corporative il miserevole particolarismo delle classi, soprattutto di quelle operaie; quello futurista, che infrangeva gli schemi della melanconica vita quotidiana e liberava lo spirito dalle catene della ragione e della parola ordinata; quello sindacalista rivoluzionario, che voleva addirittura infrangere le strutture sociali; ecc. Non mi risulta sia mai stato fatto un serio studio di tutte le fonti dell’ideologia fascista di quei primi anni, ma penso che una ricerca in profondità aiuterebbe a capire molte cose.
Ma per discendere dall’ideologia alla politica, i motivi che spinsero allora questa piccola borghesia tradizionalmente irrequieta a tentare nuove esperienze e a vivere la grande avventura del fascismo, furono le conseguenze della guerra: alcune sono note e analizzate, come l’inflazione, che colpì più duramente pensioni, redditi fissi, stipendi di categorie sindacalmente deboli incapaci di lottare per l’adeguamento dei salari nominali, come erano allora gli impiegati, polizze di assicurazioni sulla vita, i risparmi della piccola gente confluiti durante la guerra nel debito pubblico, ecc. Un’altra, pure nota, è lo stato d’animo degli ufficiali, abituati per anni a comandare e ad essere celebrati come eroi, e incapaci di tornare a lavorare a un qualsiasi tavolo d’ufficio o dietro uno sportello di banca, ritornare ad essere nessuno dopo essere stati finalmente “qualcuno”.
Su di un solo aspetto mi vorrei soffermare perché mi pare che gli storici l’abbiano trascurato più di quanto meritasse: alludo alla decadenza, che si profilava in quegli anni, della piccola borghesia dal ruolo tradizionale di sottufficiale dell’ordine sociale. Per un tipo di piccola borghesia come quella che ho descritto, che non aveva mai avuto davanti a sé grandi possibilità di ascesa sociale, questo ruolo gerarchico, per cui si servivano i ceti superiori, ma si era però sempre superiore a qualcun altro, all’operaio o al contadino, era un ruolo fondamentale e irrinunciabile. Ora l’ascesa delle masse nel dopoguerra lo metteva in serio pericolo. Bisogna qui ricordare che in Italia era durata fin allora la più rigida distinzione di classe. Non era pensabile che un operaio e un borghese vestissero abiti della stessa foggia o si coprissero con uguali copricapi (visto che allora non si usava, come oggi, andare a capo scoperto): ognuno doveva mostrare nell’abito a quale classe apparteneva. Ricordo lo scandalo della piccola borghesia quando le operaie cominciarono a portare le calze di seta, magari artificiale, usurpando una delle più gelose prerogative delle “signore” e sovvertendo in tal modo le gerarchie sociali. Ma lo scandalo più grave di tutti fu quello delle donne del popolo che cominciarono a rifiutare, nelle “code” dei negozi di generi alimentari, di lasciare il passo a una “signora” con tanto di cappello, magari una segretaria o una dattilografa, che era costretta a venir di persona a fare la spesa e subire quest’affronto.
Il capovolgimento dei valori tradizionali
Si sono scritte molte cose sul ‘19 e sulle colpe del massimalismo minacciante una rivoluzione che non era in grado di fare, sugli scioperi inutili o le aggressioni agli ufficiali, e molto c’e di vero: le responsabilità del movimento operaio sono grandi. Ma non si è detto quasi nulla su quello che il ‘19 rappresentò come capovolgimento di valori tradizionali, come maturazione improvvisa della volontà democratica delle masse che rompevano una secolare sudditanza per entrare da protagonisti e da uguali sulla scena della storia, che abbattevano molte delle divisioni semi-castali che ancora irrigidivano la società italiana, che davano dignità e coscienza civile a milioni di uomini e di donne fino ad allora considerati esseri inferiori e tenuti ai margini della società. Ma il rovescio della medaglia di questa che si potrebbe chiamare una “rivoluzione culturale” non tradotta in una rivoluzione sociale, fu la disperata difesa da parte della piccola borghesia dell’ordine sociale esistente e del proprio ruolo di sottufficiale di quest’ordine, fu la violenza antioperaia. Sarebbe superficiale tradurre questo fenomeno in termini psicologici di “invidia” verso una classe che cresceva anche economicamente rispetto al passato, come la classe operaia; si tratta di un fatto sociologico, della difesa di una struttura, in cui l’operaio deve restare operaio, il povero povero, l’inferiore inferiore. Ma non sarà forse inutile ricordare che cosa scriveva la rivista La finanza italiana: “Oggi ogni cosa è capovolta. Nessuno oserà dire, per esempio, che le classi tiranneggiate e vilipese siano proprio quelle che stanno in basso. No: i proletari sono i gaudenti, sono i consumatori irriflessivi, sono coloro che pagano al fisco assai meno di quanto dovrebbero”. E ancora: “ È tempo che si ponga fine agli eccessivi sperperi per la bettola, per il giuoco e per il lusso smodato che assorbono una parte cospicua dell’entrata di ogni singolo operaio”.
Si tratta in sostanza di piccola borghesia in decadenza, che teme di essere sempre più respinta ai margini della società, che può costituire un’utile massa di manovra per il grande capitale, ma che certo non sarebbe riuscita da sola, e neppure con l’aiuto del fascismo agrario, a prendere il potere. La vittoria del fascismo è in sostanza la vittoria del grande capitale alleato con le autorità dello Stato, quando il vecchio regime non riesce più né a dominare né a mediare. Sulle responsabilità del capitalismo industriale nella vittoria fascista la documentazione è ormai vastissima: ricordiamo, per l’autorità da cui proviene, la lettera di Luigi Albertini a Luigi Einaudi sul silenzio della Confindustria dopo il delitto Matteotti e di fronte alle minacce di una “seconda ondata” e di una notte di S. Bartolomeo: “Sembra a me (...) che lo potresti scrivere un articolo per prendere nota di questo silenzio e per chiedere agli industriali che cosa pensano della seconda ondata (...). I rapporti degli industriali col governo sono così intimi e stretti da rendere loro impossibile di esprimere un’opinione sincera su questo punto senza incorrere in collere che si temono? Eppure gli industriali dovrebbero ricordare la responsabilità che si sono assunti avendo sovvenzionato in passato e seguitando a sovvenzionare giornali che sono espressione del peggior fascismo”.
[6]
Non è certo mio compito riprendere il discorso sulle responsabilità personali e sui moventi dell’assassinio di Matteotti. Possiamo però prendere atto di alcune conseguenze, che mi paiono storicamente accettabili. In primo luogo l’uccisione di Matteotti eliminò l’avversario principale, per la sua intransigenza e per la carica che occupava di segretario del partito, di una delle ipotesi che erano state ventilate e certamente da qualcuno accarezzate: la normalizzazione per la via di un accordo con i socialisti turatiani, cioè, in altre parole, la realizzazione del compromesso fra gruppi economici dirigenti e una parte della classe operaia, che comprendeva però anche i dirigenti sindacali, come D’Aragona, Baldesi, Buozzi, ecc., che appartenevano appunto al partito di cui Matteotti era segretario. Questo compromesso era stato già auspicato da Giolitti, ma i ceti imprenditoriali non si fidavano più di lui e l’avrebbero forse accettato sotto la direzione mussoliniana. In secondo luogo il delitto, anche in conseguenza delle profonde reazioni morali che suscitò nel paese, costrinse il re e la grande borghesia a esigere da Mussolini una normalizzazione che doveva essere ormai di nuovo tipo: venuta meno la possibilità di un accordo con gli avversari, e quindi il consenso almeno di una parte della classe operaia, la dittatura diventava necessaria, ma doveva essere legalizzata e non abbandonata alla delinquenza e all’avventurismo. L’immediato passaggio del Ministero degli Interni da Mussolini stesso a Federzoni fu il primo passo di una trasformazione che ebbe forse il suo momento decisivo qualche mese dopo con l’assunzione di Alfredo Rocco al ministero della Giustizia. Con Federzoni e Rocco era il nazionalismo che si assumeva l’incarico di dare una struttura fascista eliminando o riducendo il potere dei ras. Può apparire contraddire a questa tesi la nomina avvenuta in un primo tempo di Farinacci quale segretario del partito, ma essa rientrava probabilmente nell’abituale doppio gioco di Mussolini che copriva in tal modo il voltafaccia che si preparava a compiere nei confronti della vecchia base fascista. E difatti Farinacci fu allontanato pochi mesi dopo. La vittoria del grande capitalismo era così completa.
Ieri e oggi
Bastano ormai solo poche considerazioni per terminare il raffronto fra il fascismo di ieri e quello di oggi. Partendo naturalmente dalla definizione di fascismo che io accetto, cioè di una presa quasi diretta del potere, senza controllo democratico, da parte del grande capitale, con l’appoggio di un partito di massa di piccolo-borghesi o di spostati, direi che il pericolo di una dittatura è maggiore oggi di ieri, ma per via militare e senza partito di massa. Perché se il fascismo italiano e quello tedesco furono la conseguenza di una crisi economica, cioè di una disfunzione provvisoria del sistema, oggi invece, come abbiamo detto, il sistema ha un bisogno organico e permanente, non più soltanto occasionale, di avere al proprio servizio l’apparato statale per fare funzionare il meccanismo dell’accumulazione. Nella misura in cui l’accumulazione si sviluppa su scala mondiale, questo fa sì che il regime antidemocratico della dittatura diventi una necessità per i paesi dipendenti. Tuttavia si tratta quasi sempre di una dittatura militare: essa si appoggia cioè piuttosto sulle forze armate che su un partito unico di massa.
D’altra parte però non mancano, oltre i motivi permanenti e strutturali, anche motivi contingenti e congiunturali di crisi. Non escluderei anzi che l’insieme dei fenomeni economici di vasta portata cui assistiamo, dalla recessione all’inflazione, potranno essere valutati domani come un’altra delle grandi tappe critiche del capitalismo, da cui questo potrà uscire sconfitto oppure ancora una volta rinnovato con un volto diverso. Siamo comunque in un periodo di crisi, di transizione, di squilibrio dell’economia, destinato a provocare fenomeni di crisi anche nella società, negli stati d’animo e nelle ideologie delle classi sociali. Sotto questo profilo quindi non è escluso il pericolo che si ripetano fenomeni come quelli che abbiamo esaminato.
Fenomeno diverso è invece quello del terrorismo a cui assistiamo in molti paesi, fra cui certamente l’Italia. Qui si tratta di quella che è stata chiamata giustamente “strategia della tensione”, cioè della chiara volontà di una parte minore della classe imprenditoriale, di alcune gerarchie statali, in modo particolare di appartenenti a servizi segreti, e probabilmente anche di una parte del ceto politico, di cercare di provocare, attraverso attentati terroristici di cui vorrebbero riversare la colpa su fantomatiche organizzazioni di sinistra, una reazione della piccola borghesia simile a quella che ha dato origine al primo fascismo. Che una manovra simile possa riuscire dipende soprattutto dalla vigilanza delle forze democratiche e dal rispetto del dettato costituzionale da parte degli organi governativi.
Tanto considero difficile debellare le dittature che sono organicamente legate al processo di accumulazione, altrettanto considero facile resistere a queste disperate imprese che non hanno una radice obiettiva nella situazione reale. E tuttavia c’è un’ultima osservazione che mi pare importante: la democrazia, come la pace, è indivisibile, perché il regime antidemocratico, sia fascista o militare, ha tendenza ad espandersi e a distruggere le democrazie che lo circondano e che rappresentano una sfida permanente al regime dittatoriale. Perciò la difesa della democrazia in ogni paese è una battaglia che dovrebbe unire tutti i democratici di tutti i paesi: questo fu l’ammonimento che Filippo Turati, esule dopo il delitto Matteotti e le leggi eccezionali, lanciò, inascoltato, ai democratici europei.
Le responsabilità della classe dirigente prefascista per l’avvento del fascismo sono riconosciute, di regola, dagli storici tradizionali. I quali ne riferiscono, però, come di “errori” commessi da esponenti democratici, liberali e cattolici che non diminuirebbero i meriti precedenti o - quando ne ebbero - successivi.
Che uomini politici qualificati, in età tra i 40 e i 70 anni abbiano potuto sbagliare il loro giudizio sul fascismo (il quale proprio dal ‘19 al ‘26 si presentava senza maschera) appare già discutibile. Ma ciò che lascia perplessi è che si possano considerare quegli “errori” con criteri storicistici tanto distaccati, senza prendere in considerazione, da un punto di vista politico-morale, l’effetto che ebbero sull’opinione pubblica, in particolare sulle generazioni giovani.
Tanto più quando, nei confronti degli errori di queste ultime, gli storici tradizionali (in pieno accordo con i vecchi esponenti che “sbagliarono”) non sogliono mostrare altrettanta comprensione.
Uno storico della generazione cresciuta durante il fascismo, Paolo Alatri, ha recentemente affrontato la questione, sostenendo e documentando come, alla base di quei famosi “errori”, si trovassero in realtà precisi intendimenti e calcoli (di consegnare, cioè, sia pure temporaneamente, al fascismo, il “regime” di conservazione che si vedeva minacciato dai progressi delle sinistre nell’altro dopoguerra) e, spesso, anche una sostanziale identità ideologica originaria.
RUGGERO ZANGRANDI, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Feltrinelli, 1962.

[1] Lelio Basso, a cui avevamo chiesto un contributo sulle cause del fascismo, ci ha mandato il testo di una relazione da lui tenuta al Simposio della Columbia University (Matteotti International Symposium) svolto a New York nell’ottobre 1975, in torso di pubblicazione in lingua inglese negli Atti del Simposio. Ne pubblichiamo la parte put direttamente attinente al tema proposto.
[2] “Cio che importava (alla grande industria [n.d.a.]) era di mantenere il controllo dell’industria e della finanza, la sicurezza di potere dettare l’indirizzo prevalente di politica economica del paese più e meglio che nel passato, e se questo fine, in quelle circostanze, era ottenibile a prezzo di rinunciare alla ‘forma’ democratica delle istituzioni, ebbene che si pagasse anche tale prezzo” (C. GiOVANNINI, Alle origini del fascismo, in “Il Mulino” 1972, II, pp. 990 sgg.). Cfr. anche P. SARACENO, Lo sviluppo economico dei paesi sovrapopolati in CASUCCI, Il Fascismo, Bologna, 1961, p. 333: “Ci rendiamo conto che il delinearsi di una situazione che rendesse necessaria l’assunzione di dirette responsabilità da parte dello Stato nel campo industriale, lungi dall’avere inizio dopo il 1932 con l’istituzione dell’IMI e dell’IRI, risale addirittura alla situazione creatasi con la prima guerra mondiale”. “La presa del potere era il punto di arrivo di una polemica che era cominciata fin dai primi anni del dopoguerra (1919-20), quando l’Associazione nazionale fra industriali meccanici condannava in un suo comunicato ‘l’insipienza dei nostri organi governativi’ ed affermava che ‘lo assenteismo governativo nella vita industriale, che ha così urgente bisogno di libertà e di appoggio, si era fatto cronico’, o quando la ‘Critica Finanziaria’ si chiedeva: ‘Ma non esiste forse un governo che potrebbe intervenire?’.” (F. CATALANO, Potere economico e fascismo, Milano 1964, pp. 48 e 36)
Per una più ampia trattazione di questo tema in un senso che conforta la nostra tesi: G. CASTRONOVO, Potere economico e fascismo in “Rivista di storia contemporanea” 1972, n. 3, pp. 273-313). Il Castronovo mette acutamente in rilievo la crisi dello Stato liberale incapace di offrire le necessarie mediazioni per un rilancio dell’economia, mentre il fenomeno della rivolta dei ceti medi che aveva dato inizio al movimento fascista “avrebbe potuto essere riassorbito nell’ambito di opportune mediazioni che valessero quanto meno a dare un quadro politicamente e moralmente accettabile per lo sviluppo di tutte le forze sociali” (p. 283).
[3] Se questa analisi è esatta, è chiaro che la definizione del fascismo data dal XIII Plenum del Komintern, e accettata da Togliatti come la “più completa” nelle sue Lezioni sul fascismo (“II fascismo è una dittatura terrorista aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario”) è in realtà molto incompleta, anzi inesatta.
[4] G. PROCACCI, Appunti in tema di crisi dello Stato liberale italiano e di origini del fascismo, in “Studi storici” 1965, pp. 221 sggg.).
[5] Pel l’Italia v. sopra. Per la Germania cfr. W. A. COLE Ph. DEANE, La crescita dei redditi nazionali, in Cambridge Economic History, VI, Milano 1974, p. 23, dove si dice che “l’industrializzazione tedesca fu un atto politico deliberato” e che fu grazie all’aiuto dello Stato che “nei decenni 1870 e 1880 l’economia tedesca si venne sviluppando a un ritmo che superava qualsiasi esperienza precedente, e che non ebbe l’uguale in tutta l’esperienza successiva, compresa la spettacolosa rinascita postbellica degli anni 1950” (Ibid., p. 22).
[6] L. ALBERTINI, Epistolario 1911-1926, IV, Milano 1968, pp. 1788-89.


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