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E il prete «ribelle» salvò 2000 ebrei
Dopo l'8 settembre don Giovanni Barbareschi traghettò in Svizzera migliaia di ricercati dai nazisti, grazie alla rete cattolica delle «Aquile randagie» e dell'Oscar
di Antonio Airò - Avvenire - 16 ottobre 2003
«Il 15 agosto 1944 celebravo la mia prima Messa. La sera stessa venivo arrestato e portato a San Vittore. Dovevo accompagnare un gruppo di ebrei in Svizzera. Sono stato arrestato altre due volte. La terza ero in un campo di concentramento vicino a Bolzano per essere deportato in Germania. In tre saltammo dal camion che ci trasportava. Io riuscii a cavarmela...». Monsignor Giovanni Barbareschi, per anni assistente della Fuci milanese, quindi presidente anche dell'Istituto per il sostentamento del clero dell'arcidiocesi ambrosiana, rivive quei drammatici e tragici momenti che si susseguirono dalla caduta del fascismo. Tenente cappellano delle Fiamme Verdi fin dal giorno successivo all'armistizio, come risulta dal suo tesserino militare; alla parete tiene un diploma rilasciatogli dalla comunità ebraica che lo riconosce «giusto d'Israele». «È ciò di cui vado più fiero - dice -. Il 25 luglio 1943 ero ancora studente alla Gregoriana. La
caduta del fascismo ci sorprese tutti. Eravamo per così dire "addormentati" di fronte a ciò che stava accadendo. Io avevo qualche "svegliarino" di più. Proveniva dalla mia famiglia. Mio padre non aveva mai preso la tessera del fascio; al momento delle sanzioni non aveva consegnato la sua fede matrimoniale. Ma sostanzialmente il mondo cattolico era in posizioni di attesa. Poi è venuto l'8 settembre e abbiamo capito che era il momento delle scelte».
E lei si è subito schierato?
«Io studiavo a Roma, ma tornavo abbastanza di frequente a Milano. In più c'era stato il 25 luglio. E così già il 9 settembre mi era capitato di portare alcuni ebrei nella vicina Svizzera partendo dall'Alpe Motta, verso il passo dello Spluga. La mia partecipazione alla Resistenza, come quella di tanti altri, comincia da questo salvataggio che, oltre gli ebrei, si sarebbe esteso in altre occasioni anche ai giovani renitenti alla leva, ai militari angloamericani fuggiti dai campi di concentramento dopo l'armistizio, ai ricercati dalla polizia fascista e da quella tedesca. Duemila persone in gran parte ebrei fatti espatriare clandestinamente; centinaia sottratte alla deportazione e nascoste; migliaia di documenti falsificati grazie alla collaborazione di impiegati, funzionari. La rete delle "Aquile Randagie" e il servizio Oscar resero possibile questo impegno, che poteva comportare anche la perdita della vita».
Chi sono queste «Aquile randagie» e cosa faceva l'Oscar?
«Al momento dello scioglimento degli scout cattolici nel 1928, un gruppo di capi e di responsabili dell'associazione, dopo aver consegnato i loro labari in arcivescovado al cardinal Tosi, a significare che obbedivano al loro vescovo e non al governo di Mussolini, decisero di continuare la loro attività nella clandestinità. Organizzarono anche le uscite domenicali e i campi estivi e proseguirono soprattutto il loro impegno pedagogico e formativo tra i giovani. E siccome non avevano una sede stabile assunsero la denominazione di "Aquile randagie". Dopo l'8 settembre, di fronte al moltiplicarsi delle esigenze di tanta gente, don Andrea Ghetti, conosciuto come Baden da generazioni di scout, fu l'animatore dell'Opera Scautistica Cattolica Aiuto Ricercati, l'Oscar appunto, anche se il termine "scautistica", per ragioni di prudenza, fu sostituito da quello più generico di "Soccorso". Ma a questo momento della solidarietà che
coinvolse gran parte del mondo cattolico, si aggiunse quello che io definisco il secondo canale del dopo 8 settembre...».
Di che si tratta?
«Crebbe in non pochi giovani, proprio dopo l'armistizio e l'occupazione tedesca, la volontà di resistere alla dittatura nazifascista, all'ingiustizia, all'intolleranza non solo con le armi ma soprattutto con le idee affermanti i valori della persona, della libertà, della democrazia. Ci trovavamo con Teresio Olivelli, con Carlo Bianchi, presidente della Fuci, fondatore della "Carità dell'arcivescovo", con Turoldo, con Mario Apollonio, con Dino Del Bo, con altri amici presso il collegio San Carlo in corso Magenta, o alla chiesa di San Carlo in pieno centro e in altri posti. E in questi incontri pensavamo come sarebbe stato il futuro del nostro Paese. Le nostre idee le abbiamo espresse attraverso i 26 numeri de Il Ribelle, il periodico delle "Fiamme Verdi", radicate nella provincia di Brescia. Lo stampavamo dove potevamo. Lo diffondevamo con gravi rischi. Uno dei tipografi, Franco Rovida, morì in un lager tedesco. Ma abbiamo pubblicato
anche I quaderni per approfondire le questioni da affrontare nella nuova Italia. Pensavamo già allora in chiave europea diffondendo la pubblicazione curata dal Partito d'azione nel gennaio 1944. Nelle nostre edizioni figura anche il romanzo di Steinbeck La luna è tramontata, fortemente antinazista».
Quale è stato il comportamento della popolazione e del mondo cattolico verso il vostro impegno? C'è stata una vasta zona «grigia» di indifferenti, di attendisti?
«Dopo l'8 settembre non sono mancati certo quelli che sono stati a vedere, che non si sono assunti responsabilità. Un'esigua minoranza si è anche schierata con i tedeschi e con la Rsi; altri hanno raggiunto la vicina Svizzera per attendere la conclusione della guerra. Una parte, più consistente di quanto si pensi, ha scelto di opporsi al predominio e alla prepotenza nazifascista. Io, giovane prete, ho fatto questa scelta. E con me tanti giovani, padri di famiglia, sacerdoti di tutta la diocesi, e molte donne, questo è stato un fatto significativo, perché si sono trasformate da crocerossine a staffette partigiane. Non avremmo potuto resistere senza il consenso della gente e la loro solidarietà. Ho ancora negli occhi quella vecchina che, mentre mi portavano, scortato da due Ss da San Vittore all'hotel Regina, noto per le violenze perpetrate verso i prigionieri, vedendomi in abito talare, si inginocchiò al mio passaggio...».
Arcivescovo di Milano era Schuster. Sapeva delle vostre scelte; le approvava?
«Ricordo di essere andato con don Carlo Gnocchi in arcivescovado, per dire al cardinale ciò che stavamo facendo. Non ci disse né sì, né no. "Sono scelte personali", commentò. Ma restano alcuni suoi gesti e atti che non posso dimenticare, come quando baciò a San Vittore don Paolo Liggeri, vestito da galeotto e con la barba lunga o quando, avendo saputo di un sacerdote che era stato torturato, ricevendolo dopo l'uscita dal carcere, gli si inginocchiò davanti baciandogli le mani "perché così facevano nella Chiesa primitiva i vescovi di fronte ai martiri". Per questo finita la guerra, questi preti "resistenti" ringraziarono Schuster per quanto aveva fatto nei mesi della bufera e dell'odio...».
A sessant'anni da quei giorni tragici che sconvolsero non poche coscienze, cosa direbbe a chi gli chiede se la patria morì allora?
«Rifarei la stesse cose, tali e quali. E oggi avrei ancora le stesse idee apparse su Il Ribelle. Perché la mentalità contro la quale lottare e resistere esiste tuttora anche se si presenta in modo più subdolo e più incantatore. Per questo dico, a proposito del patriottismo e della rinascita delle nazione, che il presidente Ciampi ha ragione».
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