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  Friday 28 February 2003 22:31:08  
From:
Maurizio Rotaris   Maurizio Rotaris
 
Subject:

L'industria dell'Olocausto

 
To:
Israele   Israele
 
Una riflessione tratta dal sito
http://www.olokaustos.org/saggi/interviste/finkel-it1.htm
sul libro e una esclusiva intervista a Finkelstein

L'industria dell'Olocausto: il libro
 
Giovanni De Martis
 
Il libro di Finkelstein è un volumetto di circa centocinquanta pagine suddiviso in tre capitoli. Nel primo Finkelstein sostiene che l'Olocausto fu un tema totalmente trascurato nel clima della guerra fredda. La lotta tre i due blocchi: capitalista e comunista faceva sì che ricordare l'Olocausto non fosse "politicamente utile" per la rinascita della Germania Occidentale che del "mondo libero" faceva parte.
Soltanto dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967 secondo l'autore l'Olocausto divenne uno strumento di propaganda politica e un'arma di pressione formidabile.
Il disegno generale che genera "l'industria dell'Olocausto" era all'epoca, la volontà di penetrare nella "stanza dei bottoni" della democrazia statunitense. Israele d'altro canto si era trasformato nel miglior amico degli americani nell'area medio-orientale. Arrivare al potere, al cuore del potere americano e rimanervi stabilmente, questo il disegno delle organizzazioni ebraiche statunitensi. Questa specie di congiura ebraica verso dispiega tutta la sua presunta potenza nel secondo capitolo del pamphlet. Finkelstein si occupa di rivelare la funzione e l'uso dei "dogmi" dell'Olocausto: la cosiddetta "unicità" dell'Olocausto e l'assunto di un odio eterno dei non ebrei verso gli ebrei.
L'idea che l'Olocausto sia un avvenimento unico nella storia dell'umanità e non comparabile con qualsiasi altro evento simile, nascerebbe dalla penna di Elie Wiesel.
Si tratterebbe di una cinica teoria funzionale proprio alla "industria dell'Olocausto". L'intento sarebbe quello di porre gli ebrei su di un piano di superiorità rispetto ad ogni altro popolo perseguitato. Una colossale menzogna che avrebbe come scopo la minimizzazione dell'altrui sofferenza per ingigantire la propria a fini politici. Dimostrare l'unicità della Shoah consentirebbe di passare alla terza fase di questo nuovo complotto giudaico: l'ottenimento del denaro.
Dimostrata la sofferenza unica ed irripetibile le organizzazioni passano ad incassare.

Lo sfruttamento in termini economici della Shoah occupa il terzo ed ultimo capitolo del lavoro di Finkelstein. Uno sfruttamento che avrebbe assunto i contorni di una operazione di estorsione con due gruppi di vittime: noi europei e la quasi totalità dei beneficiari ebrei che avrebbero avuto diritto a ricevere il denaro. Ma le organizzazioni ebraiche statunitensi non vengono dipinte soltanto come una "gang" di cinici ricattatori morali ma anche come una accolita di stupidi. Nella loro avidità senza fondo avrebbero gonfiato le cifre dei sopravvissuti per ottenere più denaro. Così facendo sarebbe proporzionalmente diminuito il numero delle vittime. Una simile operazione avrebbe aperto le porte ai negazionisti e alla loro propaganda favorendola enormemente.
Secondo Finkelstein l'eliminazione dei "dogmi" creati dalla "industria dell'Olocausto" ha impedito una piena e chiara conoscenza del fenomeno nazista e quindi della tragedia.

Dal libro all'intervista

Giovanni De Martis

Prima di pubblicare "L'industria dell'Olocausto" Norman Finkelstein era un semisconosciuto professore docente dell'Hunter College dell'Università di New York. Non si era mai occupato dell'Olocausto se non per stroncare in una recensione il contestato libro di Daniel Goldhagen, "I volonterosi carnefici di Hitler", operazione questa abbastanza semplice vista la quantità di critiche che Goldhagen ha ricevuto da tutto il mondo accademico statunitense.
In realtà Finkelstein in precedenza si è occupato del conflitto medio-orientale scrivendo due volumi che si distinguevano per una impronta fortemente filopalestinese.
Legato agli ambienti della "sinistra" americana (la scuola di Noam Chomsky per intenderci) Finkelstein prima della pubblicazione de "L'industria dell'Olocausto" è dunque un mal pagato (lui stesso si è lamentato dei ventiduemila dollari annui percepiti all'Hunter College) professore quarantasettene.
"L'industria dell'Olocausto" catapulta il nostro Finkelstein agli onori della cronaca dall'oggi al domani.

I casi possibili sono due: o si tratta di un'opera geniale o - come spesso accade - compare al momento giusto nella giusta "confezione".
Qualche dubbio sulla genialità del libro si può avere senza troppi timori. In primo luogo l'argomento non è affatto originale. Poco prima della pubblicazione de "L'industria dell'Olocausto" era uscito negli Stati Uniti un libro di un certo Peter Novick dal titolo "L'Olocausto nella vita americana". Più o meno Novick affrontava le stesse questioni di Finkelstein con maggiore pacatezza e in tono sociologico.
In secondo luogo il libro di Finkelstein ha i toni dell'invettiva, è politicamente scorretto, abbonda di aggettivi insultanti quindi ha toni più da invettiva politica che da studio accademico.
Possiamo quindi tranquillamente escludere la genialità come fattore di successo anche senza entrare nel merito delle argomentazioni di Finkelstein.

Le ragioni stanno altrove: nel momento in cui compare e nel "confezionamento".
Il libro di Finkelstein compare in una fase di profonda crisi degli studi americani sull'Olocausto. A fronte del fiorire di fondazioni e istituzioni che dovrebbero favorire gli studi sulla Shoah da tempo mancano opere di grande spessore.
Raul Hilberg - padre degli studi sull'argomento con il suo monumentale "La distruzione degli ebrei d'Europa" - è un professore settantacinquenne che dopo il suo gigantesco contributo per evidenti ragioni anagrafiche non può più produrre altri grandi affreschi e interpretazioni.
A fronte dell'anziano Hilberg vi sono certamente storici di grande spessore (Browning, Breitman ad esempio) ma tutti negli ultimi anni anziché produrre opere significative hanno passato il tempo in feroci litigi. Il giovane storico Goldhagen nel 1996 con la pubblicazione di un'opera che colpevolizza l'intero popolo tedesco per l'Olocausto, ha innescato una polemica che ha distratto gli studiosi da occupazioni più serie.
Nell'ultimo decennio i migliori libri sulla Shoah (come "L'ordine del terrore" di Wolgang Sofsky) sono usciti dalle università della cara vecchia Europa.
Alla crisi della storiografia americana sull'Olocausto si affianca un altro fattore: il conflitto arabo-israeliano e la sua recrudescenza. L'attenzione generale sul Medio Oriente è tale che il pubblico accoglie con vivo interesse studi sull'argomento specie se "nuovi", cioè in grado di ribaltare idee consolidate, opinioni generalmente condivise o condivisibili, analisi serie.
Il libro di Finkelstein va a cadere in questo quadro generale: l'ambiente è favorevole. Ma non basta. Occorre anche avere una buona confezione.

In genere si attira l'attenzione o per l'intelligenza o per lo strepito. Finkelstein segue questa seconda tecnica. Una vecchia storia racconta che una regina longobarda incitasse suo figlio sceso in Italia a distruggere i monumenti romani perché non potendo passare alla storia come costruttore sarebbe certamente divenuto immortale come distruttore. Finkelstein adotta pienamente la "strategia longobarda".
Trattandosi di un pensiero barbarico non è difficile da mettere in pratica. Gli ingredienti sono pochi e il metodo semplice. Basta prendere un personaggio famoso - più famoso meglio è - e coprirlo di insulti, accusarlo delle peggiori nefandezze ed il gioco è fatto. Se poi il personaggio famoso è portatore di idee generalmente accettate e condivise si attaccano per maggiore sicurezza anche quelle.

Il bersaglio della "strategia longobarda" di Finkelstein è Elie Wiesel. Premio nobel per la pace, scampato ai campi di sterminio, scrittore celebrato, Wiesel è il bersaglio ideale. Ma ancora non basta.
La "strategia longobarda" deve unirsi anche ad un'altra tecnica: "la scoperta del complotto". Chiunque abbia una certa dimestichezza con la cultura cinematografica americana sa che la paranoia paga sempre e comunque. L'americano medio ha la passione per i poteri segreti che complottano nell'ombra, per oscure quanto potenti organizzazioni intente al dominio del mercato e del mondo. Il complotto è una spiegazione semplice, affascinante ed efficace per spiegare problemi e questioni che altrimenti avrebbero bisogno di approfondimenti lunghi e faticosi. Finkelstein tira fuori dal cilindro il complotto più collaudato del mondo: il complotto ebraico.
Le organizzazioni internazionali ebraiche, in combutta con il governo israeliano dal 1967 in poi avrebbero elaborato un sofisticato piano per entrare nella stanza dei bottoni statunitense. Un piano diabolico ed efficace che utilizzando il ricordo dell'Olocausto avrebbe condotto da un lato la "lobby" ebraica ad occupare stabilmente il potere e dall'altro Israele a legittimarsi nella società americana come soggetto perseguitato.
Il complotto ebraico avrebbe così inventato "l'unicità dell'Olocausto", banalizzato i genocidi del mondo passato, presente e futuro; creato istituzioni ed organizzazioni di ricerca al solo e segreto scopo di dominare gli Stati Uniti d'America. Ma - come è universalmente noto - gli ebrei sono avidi. Ed è l'avidità che rende scoperto il "grande piano segreto". La richiesta di "spropositati" rimborsi alle banche svizzere avrebbe segnato il punto terminale del progetto. Come si sa le banche svizzere sono per definizioni soggetti deboli, indifesi, incapaci di opporsi alla pressione delle lobby ebraiche. Così il cerchio del piano si chiude: grazie all'Olocausto il potere e il denaro cadono nelle mani dell'ebraismo che - come si sa - non cerca altro se non denaro e potere.

Dai tempi dei famigerati "Protocolli dei Savi di Sion" di fabbricazione zarista e di utilizzo nazista non si dipingeva un quadro così ampio del grande complotto dell'ebraismo internazionale.
Ma Finkelstein ha un'altra carta da giocare, una carta quasi perfetta: Finkelstein è ebreo e i suoi genitori sono ebrei scampati alla Shoah. Questa qualità diventa automaticamente legittimante: un ebreo antisemita sarebbe una contraddizione in termini. In più - rispetto agli ebrei delle lobby - è povero. Sua madre per le sofferenze patite durante la Shoah ha ricevuto la misera somma di 3.500 dollari.
Il cerchio si chiude: "strategia longobarda", scoperta del complotto giudaico, discendenza ebraica dell'autore. A questo punto il contenuto del libro, le tesi esposte hanno poca importanza: il libro bomba è pronto.

Ovviamente Finkelstein rappresenta una insperata benedizione per tutti i negazionisti dell'Olocausto. Non stupisce che i siti negazionisti e neonazisti in internet pubblicizzino il libro di Finkelstein e ne utilizzino ampi stralci. C'è proprio tutto quel che serve al negazionista professionale: complotto giudaico, sionismo israeliano, avidità. Da anni i negazionisti parlano di "dogmi" della storiografia ufficiale e trovare qualcuno che sostenga che l'unicità della Shoah è soltanto una astuta strategia per spillare soldi agli europei è come trovare un tesoro.
Detto per inciso noi europei in generale in tutta la teoria di Finkelstein facciamo la figura degli imbecilli. Di fronte alla potenza delle organizzazioni ebraiche internazionali gli indifesi banchieri svizzeri si arrendono per timore delle rappresaglie del governo statunitense, i tedeschi aprono i cordoni della borsa per non essere accusati di antisemitismo.
Qualche dubbio sulla stupidità dei banchieri svizzeri è lecito avanzarlo. L'accordo stipulato dalle banche elvetiche prevede che le compensazioni riguardino soltanto i conti "dormienti" cioè quei conti correnti aperti prima o durante la guerra i cui proprietari non si sono più presentati a reclamarne il contenuto. L'accordo esplicitamente stabilisce che non vi potranno essere ulteriori richieste di rimborsi ed esclude l'oro sottratto agli ebrei e depositato dai nazisti nelle banche svizzere, le opere d'arte confiscate agli ebrei e depositate in Svizzera. A colpo d'occhio anche i banchieri svizzeri sanno fare i loro affari e non sembrano soggetti deboli alle intimidazioni.

Il libro di Finkelstein è un lavoro a tesi che offre il fianco ad una innumerevole quantità di obiezioni. Secondo molti la ridistribuzione del denaro delle compensazioni è avvenuta in modo poco trasparente, molte critiche si sono levate negli Stati Uniti su questo punto, critiche provenienti anche dallo stesso mondo ebraico americano.
L'interrogativo che ci si può porre è se per contestare eventuali malversazioni o appropriazioni indebite fosse necessario scrivere un libro che - come diremmo noi italiani - "butta via l'acqua sporca con il bambino".
Certamente si può criticare chiunque - Elie Wiesel compreso - ma attaccare personalmente il proprio interlocutore, accusarlo di disonestà materiale ed intellettuale non rientra nell'usuale modo di dibattere i problemi. Definire il Centro Simon Wiesenthal un'accozzaglia di affaristi senza cuore intenti unicamente a rastrellare fondi non sembra essere la base di partenza per un discorso costruttivo.
Il volume di Finkelstein rientra in quella categoria di scritti che pretendono di dare risposte semplici a problemi complessi. In questo senso la teoria del complotto stimola le fantasie più ingenue.

L'intervista che abbiamo realizzato via e-mail con Finkelstein aveva lo scopo di chiarire direttamente con lui la distanza che lo separa dai negazionisti. In questo senso ritenevamo giusto dargli l'occasione di precisarlo in modo netto.
Non possiamo essere d'accordo con lui quando afferma che è "l'industria dell'Olocausto" che ha fatto nascere il negazionismo. I negazionisti operano da molto tempo. Se il 1967 è l'anno in cui - secondo Finkelstein - la macchina della "industria dell'Olocausto" si mette in moto potremmo citare operazioni negazioniste ben precedenti a quella data.
L'impressione generale che ricaviamo è che Finkelstein non si preoccupi troppo di aver dato buone munizioni ai negazionisti. Noi crediamo invece che chi ha munizioni prima o poi tende ad usarle e chi le vende non può sottrarsi alle sue responsabilità.

Un'intervista che non convince

Claudio Vercelli

Si sarebbe tentati di liquidare velocemente quel che Norman Finkelstein va sostenendo nella sua intervista così come, in maniera ovviamente più argomentata, nel suo The Holocaust Industry. Già dal titolo del libro, peraltro, l’irritazione di chi vi si avvicina è quantomeno sollecitata.
L’autore lo sa bene e si può dire che cerchi di giocare le sue carte proprio sull’effetto di spiazzamento che l’intero progetto editoriale induce nel lettore. Poiché non molto di altro residua all’atto della lettura.
Che il volume sia un pamphlet e che nel caso dell’intervista si sia in presenza di un esercizio aggressivo e autodifensivo, sono due fatti evidenti.
Ma proprio perché il gioco è in qualche misura scoperto vale la pena di indagare su quelle che sono le premesse e, in una certa misura, gli effetti di tale operazione.
Tralasciando gli esercizi dietrologici o le facili illazioni e cercando di capire qual è il coté intellettuale che permette ad un docente universitario come Finkelstein di assumere una posizione così marcata e radicale, contravvenendo, almeno in alcuni passaggi, agli stessi principi del buon gusto.
In quanto ciò che egli afferma è condiviso da un numero significativo di esponenti di quella “new left” che ha sposato, negli Stati Uniti come in Europa, la causa palestinese e per la quale è disposta a concedere molto, anche contro i dati di giudizio condiviso. E si incontra, non più occasionalmente, con certe posizioni di una destra radicale che si vorrebbe anch’essa nuova ma che abitualmente si rifornisce dal retrobottega della storia, trovando nella vulgata negazionista nuova legittimazione per antichi paradigmi e, al contempo, la radice di una presunta bontà delle sue proprie idee. Bontà che in questo caso sta per continuità, per fedeltà al dogma imprescindibile e indiscutibile dell’antisemitismo come chiave di interpretazione del processo storico.
Gli elementi per assentire sulla convergenza ci sono tutti: teoria del complotto e della congiura, visione dietrologica dei processi storici e così via. In genere, il novero delle “colpe” attribuite agli ebrei, in quanto gruppo tematizzato come sociologicamente omogeneo e politicamente compatto – da cui il discorso onnipresente sulla cosiddetta “lobby sionista” - sono la proiezione capovolta delle fantasie di impotenza che caratterizzano i gruppi antisemiti.

Si è detto, e a ragione, che Finkelstein non è ascrivibile al novero dei negazionisti ipso facto. Non solo cerca di smarcarsi da questa spiacevole compagnia, che peraltro lo frequenta e assiduamente (almeno a giudicare dalla ricorrenza del suo nome nei diversi siti di area), ma nel suo libro si occupa poco o nulla della Shoah e molto di quel che dopo è avvenuto.
E quel dopo è fatto di molte cose ma in particolare modo di quattro aspetti, che stanno bene al centro della comune riflessione pubblica come nel più solipsistico The Holocaust Industry: la questione della restituzione dei beni proditoriamente sottratti e dei risarcimenti per le sofferenze patite; la ricezione del fenomeno olocaustico all’interno delle memorie nazionali europee e il problema dell’uso pubblico della storia; la cosiddetta “americanizzazione” della Shoah, la sua mediatizzazione e l’interconnessione con la vicenda israelo-palestinese; lo statuto di vittima di fatti genocidiari nella nostra contemporaneità.

E’ su questi quattro temi che Finkelstein si esercita con il suo libretto; ed è sulla distorsione di queste problematiche, sulla loro torsione a finalità di natura ideologica che si gioca la sua credibilità. Il repertorio degli elementi, in sostanza, ha un suo fondamento; il modo in cui vengono usati, per non dire manipolati, è non solo ben poco scientifico ma anche discutibilissimo dal punto di vista morale.
Vi sono sovrapposizioni, distorsione e asimmetrie che rendono il dettato a tratti miope così come, in altre circostanze, presbite. Su queste distonie crolla l’impalcatura concettuale della proposta contenute nelle pagine del suo libro come nelle parole dell’intervista.
Finkelstein è uno di quegli intellettuali militanti completamente assorbiti dall’oggetto del proprio interesse, al punto da non riuscire ad assumere una qualche forma, fors’anche residuale, di distanziamento critico dalle sue stesse opinioni e, soprattutto, dai moventi che le orientano. E il centro di gravità del suo pensiero si chiama Palestina, non Shoah.

Il riduzionismo gli si addice, intendendo con ciò quella pratica intellettuale in ragione della quale la complessità degli eventi viene ricondotta ad una unica matrice.
Si tratta di un modo di trattare i dati della storia - di una metodologia in altre parole - e non di un percorso interpretativo ed ermeneutico concorrente a quelli comunemente utilizzati. Come tale esso è parte integrante delle strategie di controllo degli eventi e di mistificazione interpretativa degli stessi che i negazionisti pongono in essere.
Finkelstein ne porta la responsabilità. Non è un negazionista ma usa la strumentazione negazionistica.
A partire dall’adozione stessa dell’espressione “industria dell’Olocausto” che sembra presupporre l’esistenza di un blocco monolitico e compatto che orienterebbe il dibattito secondo finalità precostituite e sulla scorta di una obiettivo di autovalorizzazione.
La storia così delineata, si configurerebbe come un deliberato inganno giocato da una parte contro l’altra. Laddove una parte in causa della storia sarebbe gli “ebrei” in quanto tali, un’entità a sé, con proprie logiche e dinamiche alle quali sarebbero sottesi intendimenti e disegni egemonici, almeno sul piano culturale.
Questo pensiero non è affermato dal libro né nell’intervista ma è implicato. Poiché tutta la loro costruzione concettuale e linguistica è basata su uno slittamento semantico, una serie di equivoci linguistici che portano a questa conclusione.
Autore volente o nolente. Che dimostra anche una notevole proclività verso quella visione etnicizzata dei processi socioculturali e temporali che a tratti contesta agli altri ma che in verità gli è propria.

Il richiamo a Raul Hilberg in qualità di garante dell’attendibilità di quanto egli va dicendo sembra più il riferimento di circostanza ad un santino che non il riscontro di una convinta adesione dell’uno all’altro.
Quest’ultimo sembra avallare lo spirito libellistico dell’autore, interpretato come una forma di approccio anticonformistico alla materia, in sé annosa e defatigante, delle compensazioni e delle restituzioni oltreché della cosiddetta “unicità” della Shoah. Ma non si spinge oltre, ovverosia si astiene dall’attribuire a Finkelstein quei troppi meriti che non ha.
Il focus della presunta reciprocità che l’autore di The Holocaust Industry intenderebbe intrattenere con lo studioso americano ruota intorno a quell’”americanizzazione dell’Olocausto” che negli studi di un Peter Novick ha uno spessore diverso da quello attribuitogli dal primo: si tratta di indagare sulla costruzione di immagini e rappresentazioni socialmente condivise – ed in quanto tali funzionali anche a strategie di autovalorizzazione dei gruppi che se ne fanno carico - attraverso il transito generazionale e il succedersi del tempo.
Non su ipotesi di mistificazione ideologica per parte di sodalizi etnico-clanici, come fa Finkelstein, così come quando afferma nell’introduzione al suo libro che “l’Olocausto non è un concetto arbitrario, si tratta piuttosto di una costruzione intrinsecamente coerente, i cui dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e di classe.
Per meglio dire, l’Olocausto ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di ‘vittima’, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti.”

Hilberg, storico a tutto tondo, d’altro canto, ben poco ha a che fare con il procedimento intellettuale adottato Finkelstein. Il quale non argomenta. E non supporta con dati sufficienti e documentazione appropriata le sue affermazioni (assai poco documentabili, comunque).
E’ tassativo, assertivo e apodittico. Usa una scrittura aggressiva e spiazzante. Il tono che adotta è inconfondibilmente prescrittivo. Non ha tesi da comprovare bensì sintesi da affermare.
Irrilevanti sono i giudizi di dato storico sui quali fanno premio, invece, i giudizi di valore sugli attori della storia.
Poco male se non fosse per il fatto che così travolge gli interlocutori, obbligandoli preventivamente a posizionarsi rispetto alle sue dichiarazioni, azzerando il dibattito ed orientandolo versi esiti predefiniti. Poiché egli non costruisce percorsi ma si limita a seguire un tracciato circolare che parte dall’acritica assunzione della causa palestinese come punto di riferimento per ogni successiva valutazione sulla storia, propria ed altrui, per giungere alla formulazione di una serie di proposizioni predittive.
Dice di non vedere “alcun bisogno di inventare nuovi metodi per affrontare l’argomento” dello sterminio. Rivelando così la sua scarsa considerazione per l’evento in sé, ridotto tout court alle sue deprecate manifestazioni massmediali, e per la storia stessa come per il metodo della ricerca inesausta e inesauribile.
Finkelstein sembra poi ignorare quanto in lingua tedesca è stato ancora recentemente scritto, così come quanti e quali siano i molteplici filoni di riflessione che si stanno a tutt’oggi sviluppando, soffermandosi piuttosto su quel marpione massmediatico che è David Irving verso il quale non riesce a sottacere una malcelata simpatia. Se non altro per l’atteggiamento istrionesco e la personalità narcisistica che entrambi condividono.

Insomma, parole e idee adatte ad un mercato delle drammatizzazioni più che ad una riflessione volta ad evitare quei cliché e quei pregiudizi dai quali l’autore dice di voler affrancare i lettori attraverso la sua opera, senza riuscirvi se non nella direzione esattamente opposta a quella che si afferma come voluta.

L'intervista all'autore dell'industria dell'Olocausto

Abbiamo intervistato il professor Norman Finkelstein autore del discusso "L'industria dell'Olocausto" recentemente pubblicato in Italia e che è stato al centro di un animato dibattito negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Germania. Vedi anche il nostro commento all'intervista e la nostra recensione al libro.

De Martis: Prof. Finkelstein, il suo libro "L'industria dell'Olocausto" non era ancora stato tradotto in italiano che erano sono già apparsi volumi scritti da revisionisti che ne commentavano i contenuti. Numerosi siti negazionisti riportano la sua opera utilizzandola nella loro campagna di negazione della Shoah. Cosa pensa di questo uso negazionista del suo lavoro? Si sente a disagio per questa strumentalizzazione delle
sue parole?
Finkelstein: La ragione principale per cui i negazionisti si sono immediatamente appropriati del mio libro è che l'industria dell'Olocausto l'ha immediatamente catalogato come negazione dell'Olocausto per deviare l'attenzione da critiche a cui non era in grado di rispondere. Se l'industria dell'Olocausto non l'avesse catalogato come negazione dell'Olocausto, dubito che i revisionisti l'avrebbero sostenuto. Nel libro non esiste una sola parola che possa essere interpretata come negazione
dell'Olocausto. al contrario, io sostengo nel corso dell'intero libro che la descrizione dell'Olocausto nazista come l'uccisione degli ebrei in modo industriale, come in una catena di montaggio, è corretta, così come sono (più o meno) corrette le cifre delle persone uccise che vengono convenzionalmente indicate. Una delle principali argomentazioni del libro è che proprio l'industria dell'Olocausto è diventata la principale
promotrice del negazionismo nel mondo. Se il libro contenesse una sola parola di negazione dell'Olocausto, perchè mai Raoul Hilberg, il piùautorevole studioso dell'Olocausto nazista, l'avrebbe ripetutamente appoggiato? Naturalmente avrei preferito non ottenere il sostegno dei revisionisti, così come sono certo che i maggiori critici dell'ex UnioneSovietica avrebbero fatto volentieri a meno dell'appoggio dei fanatici
della destra. Lei sostiene l'esistenza di una vera e propria lobby che ha
trasformato la Shoah in un affare. Quale è il modo corretto a suo parere per affrontare il tema della Shoah? Non vedo alcun bisogno di inventare nuovi metodi per affrontare l'argomento dell'Olocausto nazista Gli strumenti tradizionali degli storici mi sembrano adeguati. Forse questi strumenti non sono totalmente adeguati per comprendere appieno quello che è successo, ma non c'è motivo di supporre
che lo siano di più per comprendere altri eventi storici. L'Olocausto nazista fa sorgere alcune nuove domande, ma non mette in discussione i metodi convenzionali per fornire le risposte a queste domande. La migliore storiografia - ad esempio "La Distruzione degli Ebrei d'Europa" di Raoul
Hilberg - utilizza i metodi tradizionali..
Come giudica il fenomeno negazionista e quali crede siano i motivi della sua crescita?
In genere, il negazionismo è un fenomeno estremamente marginale, gonfiato dall'industria dell'Olocausto per giustificare la propria esistenza. Tuttavia, esiste il periocolo che il fenomeno cresca a causa di tutte le falsificazioni dell'industria dell'Olocausto. Se non fose per il fatto che i miei genitori stessi, al termine della loro vita, sono passati attraverso l'Olocausto nazista, anch'io a quest'ora sarei uno scettico. Chi potrebbe ancora credere una sola parola proveniente dall'industria
dell'Olocausto? Per citare un solo esempio, secondo l'industria
dell'Olocausto decine di migliaia di sopravvissuti all'Olocausto nazista saranno ancora vivi nel 2035. E' diventata una barzelletta di cattivo gusto. Recentemente Perr Ahlmark ex primo ministro svedese ha scritto: "L'antisemitismo tradizionale voleva un mondo Judenrein, l'antisemitismo moderno punta ad un mondo Judenstaatrein". Condivide questa affermazione? Molti antisemiti sostengono Israele; molti ebrei ortodossi sono fanatici antisionisti. Il vero obiettivo del poco intelligente epigramma di Ahlmark è zittire qualsiasi critica di antisemitismo mossa ad Israele. Sono ritornato proprio ieri dopo aver trascorso alcune orribili settimane in Cisgiordania e Gaza. E' veramente antisemitismo deplorare la repressione
criminale di Israele nei confronti dei Palestinesi? Io non lo credo.

Biografia del prof. Norman Finkelstein Norman Finkelstein è nato nel 1953 a Brooklyn (New York). Ottiene il dottorato presso il Department of Politics della Princeton University discutendo una tesi sulla teoria del Sionismo. Sino ad oggi ha pubblicato quattro volumi: "Image and Reality of Israel-Palestine Conflict" (1995), "The Rise and Fall of Palestine" (1996), "A Nation on Trial: The Goldhagen Thesis and Historical Truth" (1998) insieme a Ruth Bettina Birn. "The Holocaust Industry" è stato pubblicato in USA nel 2000. Attualmente insegna scienze politiche alla DePaul University a Chicago.



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