8. LA NEGAZIONE E IL CONSUMO NELLA CULTURA
Avremo dunque una
rivoluzione
politica? Noi, i coetanei di questi tedeschi? Amico mio, Lei crede
ciò che desidera... lo giudico la Germania basandomi sulla
sua
storia passata e su quella contemporanea; non mi vorrà
obiettare
che quella storia è un falso e che la vita pubblica odierna
non
rispecchia la vera situazione del popolo. Legga tutti i giornali che
vuole; si convincerà che non si smette, e mi
vorrà
concedere che la censura non impedisce ad alcuno di smettere, di
inneggiare alla nostra libertà e felicità
nazionale...
Ruge, Lettera a Marx, marzo 1843 [1]
180. La cultura è la sfera generale della conoscenza e delle
rappresentazioni del vissuto nella società storica divisa in
classi; come dire che essa è il potere di generalizzazione
esistente a parte,
come
divisione del lavoro intellettuale e lavoro intellettuale della
divisione. La cultura si è staccata dall'unità
della
società del mito, «quando il potere di
unificazione
è scomparso dalla vita dell'uomo e gli opposti hanno perduto
la
loro relazione e interazione vivente, e acquistano
l'autonomia...» (Differenza
dei sistemi di Fichte e Schelling).
Guadagnandosi la propria indipendenza, la cultura inizia un movimento
imperialistico di arricchimento, che è allo stesso tempo il
declino della sua indipendenza. La storia che crea l'autonomia relativa
della cultura, e le illusioni ideologiche su questa autonomia, si
esprime anche come storia della cultura. E tutta la storia
conquistatrice della cultura può essere compresa come storia
della rivelazione della sua insufficienza, come una marcia verso la sua
autosoppressione. La cultura è il luogo della ricerca
dell'unità perduta. In questa ricerca dell'unità,
la
cultura come sfera separata è costretta a negare se stessa.
181. La lotta della tradizione e dell'innovazione, che è il
principio di sviluppo interno della cultura delle società
storiche, non può essere perseguita che attraverso la
vittoria
permanente dell'innovazione. L'innovazione nella cultura tuttavia non
è portata da nient'altro che dal movimento storico totale
che,
prendendo coscienza della propria totalità, tende al
superamento
dei propri presupposti culturali, e va verso la soppressione di ogni
separazione.
182. Lo sviluppo delle conoscenze della società, che
contiene la
comprensione della storia come il cuore della cultura, acquista di se
stesso una conoscenza senza ritorno, che è espressa dalla
distruzione di Dio. Ma questa «condizione preliminare d'ogni
altra critica» costituisce insieme l'obbligo preliminare di
una
critica infinita. Là dove nessuna regola di condotta
può
più mantenersi, ogni risultato
della cultura la fa avanzare verso la propria dissoluzione. Come per la
filosofia, nel momento in cui ha guadagnato la propria piena autonomia,
ogni disciplina divenuta autonoma deve scomparire, prima di tutto in
quanto pretesa di spiegazione coerente della totalità
sociale, e
poi anche come strumentazione parcellare utilizzabile nell'ambito dei
suoi limiti. La mancanza
di razionalità
della cultura separata è l'elemento che la condanna a
scomparire, perché in essa la vittoria del
razionale è già presente come esigenza.
183. La cultura è originata dalla storia che ha dissolto il
genere di vita del vecchio mondo, ma in quanto sfera separata essa non
è ancora che l'intelligenza e la comunicazione sensibile
rimaste
parziali in una società parzialmente
storica. Essa è il senso di un mondo troppo
poco sensato.
184. La fine della storia della cultura si manifesta da due opposte
parti: il progetto del suo superamento nella storia totale e
l'organizzazione del suo mantenimento in quanto oggetto morto nella
contemplazione spettacolare. Uno di questi movimenti ha legato la
propria sorte alla critica sociale e l'altro alla difesa del potere di
classe.
185. Ciascuno dei due lati della fine della cultura esiste in modo
unitario, sia in tutti gli aspetti delle conoscenze che in tutti gli
aspetti delle rappresentazioni sensibili - in ciò che era l'arte
nel senso più generale. Nel primo caso si oppongono
l'accumulo
delle conoscenze frammentarie, che diventano inutilizzabili
perché l'approvazione
delle condizioni esistenti deve finalmente rinunciare alle proprie
conoscenze,
e la teoria della prassi, che da sola detiene la verità di
tutte
detenendo da sola il segreto del loro uso. Nel secondo caso si
oppongono l'autodistruzione critica del vecchio linguaggio comune
della società e la sua ricomposizione artificiale nello
spettacolo mercantile, la rappresentazione illusoria del non-vissuto.
186. Perdendo il senso della comunità della
società del
mito, la società deve perdere tutti i riferimenti di un
linguaggio realmente comune, fino al momento in cui la scissione della
comunità inattiva può venire superata
dall'accesso alla
reale comunità storica. L'arte, che fu questo linguaggio
comune
dell'inazione sociale, dal momento in cui si costituisce come arte
indipendente in senso moderno, emergendo dal proprio originario
universo religioso e divenendo produzione individuale di opere
separate, conosce, come caso particolare, il movimento che domina la
storia dell'insieme della cultura separata. La sua affermazione
indipendente è l'inizio della sua dissoluzione.
187. Il fatto che il linguaggio della comunicazione si è
perduto, ecco ciò che esprime positivamente
il movimento moderno di decomposizione di ogni arte, il suo
annientamento formale. Ciò che questo movimento esprime
negativamente è che un linguaggio comune deve venire
ritrovato,
non più nella conclusione unilaterale che, per l'arte della
società storica, arrivava
sempre troppo tardi, parlando ad altri
di ciò che era stato vissuto senza dialogo reale, e
ammettendo
questa deficienza della vita, ma deve essere ritrovato nella prassi,
che riunisce in essa l'attività diretta e il suo linguaggio.
Si
tratta di possedere effettivamente la comunità del dialogo e
il
gioco con il tempo che sono stati rappresentati
dall'opera poetico-artistica.
188. Quando l'arte divenuta indipendente rappresenta il proprio mondo
con dei colori brillanti, un momento della vita è
invecchiato e
non si lascia ringiovanire con dei colori brillanti. Si lascia soltanto
evocare nel ricordo. La grandezza dell'arte non comincia ad apparire
che al venir meno della vita.
189. Il tempo storico che pervade l'arte si è espresso prima
di tutto nella sfera stessa dell' arte, a partire dal barocco.
Il barocco è l'arte di un mondo che ha perduto il proprio
centro: l'ultimo ordine mitico riconosciuto dal Medioevo, nel cosmo e
ne! governo terreno - l'unità della Cristianità e
il
fantasma di un Impero - è caduto. L' arte del cambiamento
deve
portare in sé il principio effimero che si scopre nel mondo.
Essa ha scelto, dice Eugenio d'Ors, «la vita contro
l'eternità». Il teatro e la festa, la festa
teatrale, sono
i momenti dominanti della realizzazione barocca, nella quale ogni
espressione artistica particolare non acquista il proprio senso se non
nel riferimento allo scenario di un luogo costruito, ad una costruzione
che dev'essere per se stessa il centro dell'unificazione: e questo
centro è il passaggio, che è iscritto come un
equilibrio
minacciato nel disordine dinamico del tutto. L'importanza, talvolta
eccessiva, acquisita dal concetto di barocco nella discussione estetica
contemporanea, traduce la presa di coscienza
dell'impossibilità
di un classicismo artistico: gli sforzi in favore di un classicismo o
neoclassicismo normativo, dopo tre secoli, non sono stati che delle
brevi costruzioni artificiali parlanti il linguaggio esteriore dello
Stato, quello della monarchia assoluta o della borghesia rivoluzionaria
vestita alla romana. Dal romanticismo al cubismo, si ha alla fine
un'arte della negazione sempre più individualizzata,
rinnovantesi perpetuamente fino alla dispersione e alla negazione
completa della sfera artistica, quella che ha seguìto il
corso
generale del barocco. La scomparsa dell'arte storica, che era legata
alla comunicazione interna di un'élite, che aveva la propria
base sociale semindipendente nelle condizioni parzialmente ludiche
ancora vissute dalle ultime aristocrazie, traduce anche il fatto che il
capitalismo conosce ii primo potere di classe che si mostra spogliato
di ogni qualità ontologica: e la cui radice del potere,
posta
nella semplice gestione dell' economia, è ugualmente la
perdita
di ogni padronanza
umana. L'insieme barocco, che per la creazione artistica
è esso stesso una unità da lungo tempo perduta,
si ritrova in qualche modo nel consumo
attuale della totalità del passato artistico. La conoscenza
e il
riconoscimento storico di tutta l'arte del passato, retrospettivamente
costituita in arte mondiale, la relativizzano in un disordine globale,
che costituisce a sua volta un edificio barocco a un livello
più
elevato, edificio nel quale devono fondersi la produzione stessa di
un'arte barocca e tutte le sue risorgenze. Le arti di tutte le
civiltà e di tutte le epoche, per la prima volta, possono
essere
tutte conosciute e ammesse insieme. E' un «repertorio di
ricordi» della storia dell'arte che, divenendo possibile,
è anche la
fine del mondo dell'arte.
E' in quest'epoca di musei, quando nessuna comunicazione artistica
può più esistere, che tutti i trascorsi momenti
dell'arte
possono essere ugualmente ammessi, perché nessuno di essi
patisce più della perdita delle proprie condizioni
particolari
di comunicazione, nella perdita presente delle condizioni di
comunicazione in generale.
190. L'arte nell'epoca della sua dissoluzione, in quanto movimento
negativo teso al superamento dell'arte in una società
storica in
cui la storia non è ancora vissuta, è allo stesso
tempo
un'arte del cambiamento e l'espressione pura del cambiamento
impossibile. Più la sua esigenza è grandiosa,
più
la sua vera realizzazione è al di là di essa.
Quest'arte
è necessariamente d'avanguardia,
e non lo è. La sua avanguardia è la
sua scomparsa.
191. Il dadaismo e il surrealismo sono le due correnti che hanno
segnato la fine dell'arte moderna. Essi sono contemporanei, anche se in
modo relativamente cosciente, dell'ultimo grande assalto del movimento
rivoluzionario proletario; e la sconfitta di questo movimento, che li
ha lasciati rinchiusi nello stesso campo artistico di cui avevano
proclamato la caducità, è la ragione fondamentale
della
loro immobilizzazione. Il dadaismo e il surrealismo sono allo stesso
tempo storicamente legati e in opposizione. In questa opposizione, che
costituisce anche ciascuno di loro la parte più conseguente
e
radicale del loro apporto, appare l'insufficienza interna della loro
critica, sviluppata unilateralmente dall'uno come dall'altro. Il
dadaismo ha voluto sopprimere
l'arte senza realizzarla; e il surrealismo ha voluto realizzare l'arte senza
sopprimerla. La posizione critica elaborata in seguito dai
situazionisti
ha mostrato che la soppressione e la realizzazione dell'arte sono gli
aspetti inseparabili di un unico superamento
dell'arte.
192. Il consumo spettacolare che conserva la vecchia cultura congelata,
compresa la ripetizione recuperata delle sue manifestazioni negative,
diviene apertamente nel suo settore culturale ciò che
è
implicitamente nella sua totalità: la comunicazione dell'incomunicabile.
La distruzione estrema del linguaggio vi si può trovare
piattamente riconosciuta come un valore positivo ufficiale,
perché si tratta di esibire una riconciliazione con lo stato
dominante delle cose, nel quale ogni comunicazione è
proclamata
allegramente assente. La verità critica di questa
distrazione,
in quanto vita reale della poesia e dell'arte moderne, è
evidentemente nascosta, perché lo spettacolo, che ha la
funzione
di far dimenticare la
storia nella cultura,
applica nella pseudonovità dei suoi mezzi modernisti la
strategia stessa che lo costituisce in profondità.
Può
così accadere che venga a spacciarsi per nuova una scuola di
neoletteratura che ammette semplicemente di contemplare lo scritto per
se stesso. Oppure, a fianco della semplice proclamazione della
sufficiente bellezza del dissolvimento del comunicabile, la tendenza
più moderna della cultura spettacolare - e la più
legata
alla pratica repressiva dell'organizzazione generale della
società - cerca di ricomporre, con dei «lavori
collettivi», un ambiente neoartistico complesso a partire da
elementi decomposti; in particolare nelle ricerche di integrazione dei
frammenti artistici o degli ibridi estetico-tecnici nell'urbanismo.
Questa è la traduzione sul piano della pseudocultura
spettacolare, del progetto generale del capitalismo sviluppato, che
mira a riprendere il lavoratore parcellare «come
personalità ben integrata nel gruppo»: tendenza
descritta
dai recenti sociologi americani (Riesman, Whyte ecc.). Dappertutto
è lo stesso progetto di una ristrutturazione senza
continuità.
193. La cultura diventata integralmente merce deve anche divenire la
merce-vedette della società spettacolare. Clark Kerr, uno
degli
ideologi più avanzati di questa tendenza, ha calcolato che
il
complesso processo di produzione, distribuzione e consumo delle conoscenze,
accaparra negli Stati Uniti già annualmente il 29% del
prodotto
nazionale: e prevede che la cultura debba tenere nella seconda
metà di questo secolo il ruolo motore nello sviluppo
dell'economia, ruolo che fu quello dell'automobile nella prima
metà, e delle ferrovie nella seconda metà del
secolo
scorso.
194. L'insieme delle conoscenze che continua attualmente a svilupparsi
come pensiero dello
spettacolo
deve giustificare una società senza giustificazioni e
costituirsi come scienza generale della falsa coscienza. Essa
è
interamente condizionata dal fatto che essa non può e non
vuole
pensare la propria base materiale nel sistema spettacolare.
195. Il pensiero dell'organizzazione sociale dell'apparenza
è esso stesso oscurato dalla sottocomunicazione
generalizzata che esso difende. Non sa che il conflitto è
all'origine di tutte le cose del suo mondo. Gli specialisti del potere
dello spettacolo, potere assoluto all'interno del suo sistema di
linguaggio senza risposta, sono assolutamente corrotti dalla loro
esperienza del disprezzo e del successo del disprezzo;
perché
essi trovano il loro disprezzo confermato dalla conoscenza dell'uomo disprezzabile che
è veramente lo spettatore.
196. Nel pensiero specializzato del sistema spettacolare si opera una
nuova divisione dei compiti, man mano che il perfezionamento stesso di
questo sistema pone dei nuovi problemi: da una parte la critica
spettacolare dello spettacolo è intrapresa dalla moderna
sociologia, la quale studia la separazione con l'ausilio dei soli
strumenti concettuali e materiali della separazione; dall'altra l'apologia dello spettacolo
si costituisce come pensiero del non-pensiero, in oblio titolato
della pratica storica, nelle diverse discipline in cui si radica io
strutturalismo. Tuttavia, la falsa disperazione della critica
non-dialettica e il falso ottimismo della pura pubblicità
del
sistema sono identici in quanto pensiero sottomesso.
197. La sociologia che ha incominciato a mettere in discussione, prima
di tutto negli Stati Uniti, le condizioni di esistenza originate dallo
sviluppo attuale, malgrado abbia potuto apportare molti dati empirici,
non conosce affatto la verità del proprio oggetto,
perché
non trova in esso la critica che gli è immanente. Di modo
che la
tendenza sinceramente riformista di questa sociologia non poggia se non
sulla morale, sul buon senso, su richiami aleatori quanto totalmente
inadeguati al fine ecc. Un tale modo di criticare, dal momento che non
conosce il negativo insediato al centro del suo mondo, non fa che
insistere sulla descrizione di una sorta di eccedenza negativa che gli
sembra deplorabilmente ingombrarlo alla superficie, come una
proliferazione parassitaria irrazionale. Questa buona
volontà
indignata, che anche in quanto tale non riesce a biasimare se non le
conseguenze esteriori del sistema, si crede critica dimenticando il
carattere essenzialmente apologetico
dei suoi presupposti e del suo metodo.
198. Coloro che denunciano l'assurdità o i pericoli
dell'incitamento allo spreco nella società dell'abbondanza
economica, non sanno a che cosa serva lo spreco. Essi condannano con
ingratitudine, in nome della razionalità economica, i buoni
guardiani irrazionali senza i quali il potere di questa
razionalità economica crollerebbe. E Boorstin, per esempio,
che
descrive in L'immagine
il
consumo mercantile dello spettacolo americano, non raggiunge mai il
concetto di spettacolo, perché egli crede di poter lasciare
al
di fuori di questa disastrosa esagerazione la vita privata o la nozione
di «onesta merce». Egli non comprende che la merce
stessa
ha fatto le leggi la cui applicazione «onesta» deve
condurre sia alla realtà distinta della vita privata, che
alla
sua ulteriore riconquista attraverso il consumo sociale delle immagini.
199. Boorstin descrive gli eccessi di un mondo che ci è
diventato estraneo, come eccessi estranei al nostro mondo. Ma la base
«normale» della vita sociale alla quale egli si
riferisce
implicitamente, quando qualifica il regno superficiale delle immagini
in termini di giudizio psicologico e morale come il prodotto delle
«nostre stravaganti pretese», non ha nessuna
realtà,
né nel suo libro, né nel suo tempo. E' per il
fatto che
la vita umana reale di cui parla Boorstin è per lui nel
passato,
compreso il passato della rassegnazione religiosa, che egli non
può comprendere tutta la profondità di una
società
dell'immagine. La verità di questa società non
è
altro che la negazione
di questa società.
200. La sociologia che crede di poter isolare dall'insieme della vita
sociale una razionalità industriale funzionante a parte,
può anche arrivare ad isolare dal movimento industriale
globale
le tecniche di riproduzione e trasmissione. E' così che
Boorstin
individua la causa dei risultati che egli dipinge nell'infelice
incontro, quasi fortuito, tra un eccessivo apparato tecnico di
diffusione e un'eccessiva attrazione degli uomini della nostra epoca
per lo pseudosensazionale. Così lo spettacolo sarebbe dovuto
al
fatto che l'uomo moderno è troppo spettatore. Boorstin non
comprende che la proliferazione degli
«pseudoeventi»
prefabbricati che denuncia, è originato semplicemente dal
fatto
che gli uomini, nella massificata realtà dell' attuale vita
sociale, non vivono gli avvenimenti in modo autonomo. E' per il fatto
che la storia stessa ossessiona la società moderna come uno
spettro, che si ritrova della pseudostoria costruita a tutti i livelli
del consumo della vita per preservare l'equilibrio minacciato
dell'attuale tempo
congelato.
201. L'affermazione della stabilità definitiva di un breve
periodo di congelamento del tempo storico costituisce la base
innegabile, inconsciamente e consciamente proclamata, dell'attuale
tendenza ad una sistematizzazione strutturalistica.
Il punto di vista da cui si pone il pensiero antistorico dello
strutturalismo è quello dell'eterna presenza di un sistema
che
non è mai stato creato e che non finirà mai. Il
sogno
della dittatura di una struttura preliminare inconscia su ogni prassi
sociale ha potuto essere abusivamente ricavato dai modelli di struttura
elaborati dalla linguistica e dall'etnologia (ovvero dall'analisi del
funzionamento del capitalismo), modelli già abusivamente
compresi in queste circostanze, semplicemente
perché un pensiero universitario di quadri medi,
presto soddisfatti, pensiero interamente preso nell'elogio meravigliato
del sistema esistente, riporta piattamente ogni realtà
all'esistenza del sistema.
202. Come in ogni scienza sociale storica, bisogna sempre tenere
d'occhio, per la comprensione delle categorie
«strutturalistiche», che le categorie esprimono
forme e
condizioni di esistenza. Come non si può valutare il valore
di
un uomo, secondo la concezione che egli ha di se stesso, non si
può valutare - e ammirare - neanche questa determinata
società accettando come indiscutibilmente veridico il
linguaggio
che essa parla a se stessa. «Non si possono
giudicare tali
epoche di trasformazione secondo la coscienza che se ne ha al momento:
al contrario, si devono spiegare queste forme di coscienza con le
contraddizioni della vita materiale...». La struttura
è
figlia del potere presente. Lo strutturalismo è il pensiero garantito dallo Stato,
che pensa le presenti condizioni della
«comunicazione»
spettacolare come un assoluto. Il suo modo di studiare il codice dei
messaggi in sé non è che il prodotto e il
riconoscimento
di una società in cui la comunicazione esiste sotto forma di
una
cascata di segnali gerarchici. Non è lo strutturalismo
quindi
che serve a provare la validità metastorica della
società
dello spettacolo: è invece al contrario la
società dello
spettacolo, nel momento in cui s'impone come realtà di
massa,
che serve a provare il sogno freddo dello strutturalismo.
203. Senza dubbio, il concetto critico di spettacolo
può anche venire volgarizzato in una qualsiasi forma vuota
della
retorica sociologico-politica per spiegare e denunciare astrattamente
tutto, e servire così alla difesa del sistema spettacolare.
Perché è evidente che nessuna idea può
portare al
di là dello spettacolo esistente, ma soltanto al di
là
delle idee esistenti sullo spettacolo. Per distruggere effettivamente
la società dello spettacolo, ci vogliono degli uomini che
mettano in azione una forza pratica. La teoria critica dello spettacolo
non è vera se non unificandosi con la corrente pratica della
negazione nella società, e questa negazione, la ripresa
della
lotta di classe rivoluzionaria, diventerà cosciente di se
stessa
sviluppando la critica dello spettacolo, che è la teoria
delle
sue reali condizioni, delle condizioni pratiche dell'oppressione
attuale, e che inversamente svela il segreto di ciò che essa
può essere. Questa teoria non attende miracoli dalla classe
operaia. Essa affronta la nuova formulazione e la realizzazione delle
esigenze proletarie come un compito di lungo respiro. Per distinguere
artificialmente lotta teorica e lotta pratica - dato che, sulla base
qui definita, la costituzione stessa e la comunicazione di una teoria
del genere non possono concepirsi senza una pratica rigorosa
- è certo che il cammino oscuro e difficile della teoria
critica
dovrà avere lo stesso destino del movimento pratico agente
sul
piano della società.
204. La teoria critica deve comunicarsi
nel proprio linguaggio. E' il linguaggio della contraddizione, che
dev'essere dialettico nella forma come lo è nel contenuto.
Esso
è critica della totalità e critica storica. Non
è
un «grado zero della scrittura», ma il suo
rovesciamento.
Non è una negazione dello stile, ma lo stile della negazione.
205. Nel suo stesso stile, l'esposizione della teoria dialettica
è uno scandalo e un abominio per le regole del linguaggio
dominante e per il gusto che esse hanno educato, perché
nell'impiego positivo dei concetti esistenti esso include
contemporaneamente l'intelligenza della loro fluidità
ritrovata, della loro necessaria distruzione.
206. Questo stile che contiene in sé la propria critica deve
esprimere il dominio della critica presente su tutto il suo passato.
Attraverso di esso, le modalità di esposizione della teoria
dialettica testimoniano dello spirito negativo che è in
essa.
«La verità non è come il prodotto in
cui non si
trovano più tracce dell'utensile» (Hegel). Questa
coscienza teorica del movimento, nella quale la traccia stessa del
movimento dev'essere presente, si manifesta attraverso il rovesciamento delle
relazioni stabilite fra i concetti e con il détournement
di tutte le acquisizioni della precedente critica. Il rovesciamento del
genitivo è l'espressione delle rivoluzioni storiche,
registrata
nella forma del pensiero, che è stata considerata come lo
stile
epigrammatico di Hegel. Il giovane Marx, preconizzando, secondo l'uso
sistematico che ne aveva fatto Feuerbach, la sostituzione del soggetto
col predicato, è giunto all'impiego più
conseguente di
questo stile
insurrezionale che, dalla filosofia della miseria, ricava
la miseria della filosofia. Il détournement
riporta alla sovversione le conclusioni critiche passate che sono state
stereotipizzate in verità rispettabili, cioè
trasformate
in menzogne. Già Kierkegaard ne ha fatto un uso deliberato e
quindi anche la denuncia: «Ma nonostante il rimestare, la
marmellata va a finire sempre in dispensa, finisci sempre per far
scivolare una parolina che non è tua e che turba con il
ricordo
che risveglia» (Briciole
filosofiche). E' l'obbligo della distanza, verso
ciò che è stato falsificato in verità
ufficiale che determina quest'impiego del détournement,
così delineato da Kierkegaard nello stesso libro:
«Una
sola osservazione ancora a proposito delle tue numerose allusioni,
miranti tutte al fatto che io mescolo ai miei discorsi espressioni
prese a prestito altrove, lo non lo nego qui, e non
nasconderò
neanche il fatto che era voluto, e che in un nuovo seguito a questa brochure,
se mai lo scriverò, ho intenzione di nominare l'oggetto con
il
suo vero nome e di rivestire il problema di un costume
storico».
207. Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio
è necessario. Il progresso lo implica. Esso stringe da
presso la
frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella una falsa
idea, la sostituisce con l'idea giusta.
208. Il détournement è il contrario della
citazione,
dell'autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto
che
è divenuta citazione; frammento strappato dal suo contesto,
dal
suo movimento e infine dalla sua epoca, come riferimento globale, e
dall'opzione precisa che essa era all'interno di tale riferimento,
esattamente riconosciuto o erroneo. Il détournement
è il
linguaggio fluido dell'antideologia. Esso appare nella comunicazione
che sa di non poter pretendere di detenere nessuna garanzia in se
stessa e definitivamente. E', nel suo punto più alto, il
linguaggio che nessun riferimento antico e sovracritico può
confermare. Al contrario, è proprio la sua coerenza, in se
stesso e con i fatti praticabili, che può confermare il
vecchio
nucleo di verità che vi riporta. Il détournement
non ha
fondato la propria causa su nulla di esterno alla propria
verità
come critica presente.
209. Ciò che nella formulazione teorica si presenta
apertamente come détourné,
smentendo ogni autonomia durevole della sfera della teoria espressa, e
facendovi intervenire mediante
questa violenza
l'azione che sconvolge e ribalta ogni ordine esistente, ricorda che
questa esistenza della teoria non è nulla in se stessa, e
non
può riconoscersi che nell'azione storica e con la correzione
storica che è la sua vera fedeltà.
210. La negazione reale della cultura è la sola che ne
conserva il senso. Essa non può più essere culturale.
Pertanto, essa è ciò che resta, in qualche modo,
al
livello della cultura, anche se in un'accezione molto diversa.
211. Nel linguaggio della contraddizione, la critica della cultura si
presenta unificata:
in quanto essa domina l'insieme della cultura - la conoscenza come la
poesia - e in quanto non si separa più dalla critica della
totalità sociale. E questa critica teorica unificata
la sola che va incontro alla pratica
sociale unificata.
1. In A. Ruge-K. Marx, Annali franco-tedeschi,
a cura di G.M. Bravo, Massari editore, Bolsena 2001, pp. 49 e 52
[n.d.r.].