PREFAZIONE ALLA QUARTA EDIZIONE ITALIANA (1979) [1]
Traduzioni di questo libro, pubblicato a Parigi
verso la fine del 1967, sono già apparse in una decina di paesi; e spesso diverse ne
sono state prodotte nella stessa lingua, da editori in concorrenza; e
quasi sempre sono cattive traduzioni. Le prime sono state dappertutto
infedeli e scorrette, tranne che in Portogallo e, forse, in Danimarca.
Le traduzioni pubblicate in olandese e in tedesco sono buone a partire
dal secondo tentativo, per quanto l'editore tedesco abbia trascurato,
in questo secondo caso, di correggere una mole di errori di stampa. In
inglese e in spagnolo, bisogna aspettare la terza edizione per sapere
cosa ho scritto.
Niente è stato peggiore, tuttavia, di ciò che ho
visto in
Italia dove, nel 19689, l'editore De Donato ha pubblicato la
più
mostruosa di tutte, solo parzialmente migliorata dalle due edizioni
rivali che l'hanno seguita. All'epoca, comunque, Paolo Salvadori era
andato a trovare nei loro uffici i responsabili di un simile affronto
e, dopo averli colpiti, avevo loro letteralmente sputato in faccia:
perché tale è naturalmente il modo di agire dei
buoni
traduttori, quando ne incontrano di cattivi. E' inutile dire che la
traduzione per la quarta edizione italiana, fatta da Salvadori,
è finalmente eccellente.
Le gravi carenze di molte traduzioni che, ad
eccezione delle quattro o
cinque migliori, non mi sono state sottoposte, non significano che
questo libro sia più difficile da comprendere di qualsiasi
altro
che abbia mai realmente meritato di essere scritto. Non è
vero
nemmeno che questo trattamento sia particolarmente riservato alle opere
sovversive, dal momento che in tal caso i falsificatori non avrebbero
almeno da temere di essere trascinati in tribunale dall'autore; o
perché l'eventuale assurdità aggiunta al testo
favorirebbe alquanto le velleità di confutazione da parte
degli
ideologi borghesi o burocratici.
Non si può fare a meno di constatare
che la grande maggioranza
delle traduzioni pubblicate negli ultimi anni, in qualunque paese, e
anche quando si tratta dei classici, sono trattate allo stesso modo. il
lavoro intellettuale salariato tende normalmente a seguire la legge
della produzione industriale della decadenza, in cui il profitto
dell'imprenditore dipende dalla rapidità di esecuzione e
dalla
cattiva qualità del materiale impiegato. Questa produzione -
così fieramente liberata da ogni forma di riguardo per il
gusto
del pubblico, concentrata finanziariamente e dunque sempre meglio
attrezzata tecnologicamente, detentrice del monopolio, in tutto lo
spazio del mercato, sulla presenza non-qualitativa dell'offerta - ha
potuto speculare con un'impudenza crescente sulla sottomissione forzata
della domanda e sulla perdita del gusto che ne è
momentaneamente
la conseguenza nella massa della sua clientela.
Che si tratti di un alloggio, della carne di bue
d'allevamento o del
frutto dello spirito ignaro di un traduttore, la considerazione che
s'impone sovrana è che si può ormai ottenere
molto
rapidamente, a costo minore, ciò che prima esigeva un tempo
abbastanza lungo di lavoro qualificato. E' ben vero, del resto, che i
traduttori hanno poche ragioni di pensare sul senso di un libro, e
soprattutto, preliminarmente, di apprendere la lingua in questione,
visto che quasi tutti gli autori attuali hanno essi stessi scritto con
fretta così manifesta dei libri che saranno fuori moda in un
tempo così breve. Perché tradurre bene
ciò che era
già inutile scrivere e che non sarà letto? E' per
questo
aspetto della sua speciale armonia che il sistema spettacolare
è
perfetto: esso crolla da altri lati.
Tuttavia, questa pratica corrente della maggior
parte degli editori è inadeguata nel caso de La società dello
spettacolo,
che interessa un pubblico del tutto diverso, per un diverso uso.
Esistono, in maniera nettamente più marcata di una volta,
diversi tipi di libri. Molti non vengono neppure aperti; e pochi sono
ricopiati sui muri. Questi ultimi devono la loro popolarità
e il
loro potere di persuasione proprio al fatto che le istanze disprezzate
dello spettacolo non ne parlano, o accennano di sfuggita qualche misera
banalità.
Gli individui che dovranno giocare le proprie
vita a partire da una
certa descrizione delle forze storiche e del loro impiego desiderano,
ovviamente, esaminare di persona i documenti sulla base di traduzioni
rigorosamente esatte. Senza dubbio, nelle condizioni attuali di
produzione ipermoltiplicata e di diffusione iperconcentrata dei libri,
i titoli, nella loro quasi totalità, conoscono il successo,
o
più spesso l'insuccesso, solo durante le poche settimane che
seguono la loro uscita. Qualunque mezza calzetta dell'editoria attuale
fonda su questo la propria politica dell'arbitrio precipitoso e del
fatto compiuto, che conviene abbastanza bene ai libri di cui non si
parlerà che una sola volta e non importa come. Questo
privilegio
manca qui, ed è perfettamente inutile tradurre il mio libro
in
modo sommario, poiché il compito sarà sempre
ricominciato
da altri; e le cattive traduzioni saranno invariabilmente soppiantate
da altre migliori.
Un giornalista francese che, recentemente, aveva
composto un grosso
volume, annunciato come l'evento in grado di rinnovare l'intero
dibattito delle idee, qualche mese dopo spiegava il suo fiasco con il
fatto che gli sarebbero mancati i lettori, piuttosto che le idee. Egli
dichiarava quindi che siamo in una società in cui non si
legge;
e che se Marx pubblicasse oggi Il
Capitale,
andrebbe una sera a spiegare le sue intenzioni in una trasmissione
letteraria della televisione, e l'indomani non se ne parlerebbe
più. Questo divertente equivoco risente bene dell'ambiente
d'origine. Evidentemente, se qualcuno pubblica ai giorni nostri un vero
libro di critica sociale, si asterrà certamente dall'andare
in
televisione, o di partecipare ad altri colloqui dello stesso genere; di
modo che, dieci o vent'anni dopo, se ne parlerà ancora.
A dire il vero, credo che non esista nessuno al
mondo capace di
interessarsi al mio libro, al di fuori di coloro che sono nemici
dell'ordine sociale esistente, e che agiscono effettivamente a partire
da questa situazione. La mia certezza a questo riguardo, ben fondata in
teoria, è confermata dall'osservazione empirica delle rare e
indigenti critiche o allusioni che esso ha suscitato fra coloro che
detengono, o si stanno ancora sforzando di acquisire,
l'autorità
di parlare pubblicamente nello spettacolo, davanti ad altri che
tacciono. Questi diversi specialisti delle apparenze di discussioni che
si usa chiamare ancora, ma abusivamente, culturali o politiche, hanno
necessariamente allineato la loro logica e la loro cultura a quelle del
sistema che può impiegarli; non soltanto perché
sono
stati selezionati da esso, ma soprattutto perché sono
stati istruiti mai da nient'altro.Di tutti coloro che hanno
citato questo libro per riconoscergli qualche importanza, non ne ho
visto finora uno solo che si sia arrischiato a dire, anche
sommariamente, di che si trattasse: in effetti non si trattava per loro
che di dare l'impressione di non ignorarlo.
Contemporaneamente, tutti
quelli che gli hanno trovato un difetto sembrano non avergliene trovati
altri, poiché non ne hanno detto nient'altro. Ma ogni colta
il
difetto preciso aveva qualcosa di sufficiente per soddisfare il suo
scopritore. L'uno aveva visto questo libro non abbordare il problema
dello Stato; l'altro non tenere contro alcuno dell'esistenza della
storia; un altro l'ha respinto perché elogio irrazionale e
incomunicabile della pura distruzione; un altro ancora l'ha condannato
quale guida segreta della condotta di tutti i governi costituiti dopo
la sua apparizione. Cinquanta altri sono immediatamente pervenuti ad
altrettante conclusioni singolari, nello stesso sonno della ragione. E
che essi lo abbiano scritto su dei periodici, dei libri, o in pamphlet
composti ad hoc,
lo stesso
tono dell'impotenza capricciosa è stato impiegato da tutti,
in
mancanza di meglio. Di contro, a mia conoscenza, è nelle
fabbriche d'Italia che questo libro ha trovato, per il momento, i suoi
migliori lettori. Gli operai italiani,
che possono essere oggi portati
come esempio ai loro compagni di tutti i Paesi per il loro assenteismo,
per i loro scioperi selvaggi che nessuna concessione particolare riesce
a placare, il loro lucido rifiuto del lavoro, il loro disprezzo della
legge e di tutti i partiti statalisti, conoscerono abbastanza il
soggetto nella pratica per aver potuto trarre profitto dalle tesi
de La
società dello spettacolo, anche quando non ne
leggevano che delle mediocri traduzioni.
I commentatori hanno spesso fatto finta di non
comprendere a quale uso
poteva essere destinato un libro che non può essere
classificato
in alcuna delle categorie riguardanti le produzioni intellettuali che
la società ancora dominante è pronta a prendere
in
considerazione, e che non è scritto dal punto di vista di
alcuno
dei mestieri specializzati che essa incoraggia. Le intenzioni
dell'autore sono dunque apparse oscure. Non vi è
là
tuttavia niente di misterioso. Clausewitz, in La campagna del 1815 in Francia,
ha osservato:
In ogni critica
strategica,
l'essenziale è di mettersi esattamente dal punto di vista
degli
attori; è vero che questo è spesso molto
difficile. La
grande maggioranza delle critiche strategiche scomparirebbe
completamente, o si ridurrebbe a delle leggerissime distinzioni di
comprensione, se gli scrittori volessero o potessero mettersi col
pensiero in tutte le circostanze in cui si trovavano gli attori.
Nel 1967, volevo che l'Internazionale
Situazionista avesse un libro di
teoria. L'I.S. era in quel momento il gruppo estremista che
più
si era dato da fare per riportare la contestazione rivoluzionaria nella
società moderna; ed era facile vedere che questo gruppo,
avendo
già imposto la propria vittoria sul terreno della critica
teorica, e avendola abilmente proseguita su quello dell'agitazione
pratica, si avvicinava allora al punto culminante della propria azione
storica. Si trattava di fare dunque in modo che questo libro fosse
presente nei sommovimenti che presto sarebbero arrivati, e che lo
avrebbero trasmesso dopo di loro, al vasto seguito sovversivo cui
avrebbero sicuramente dato vita.
E' nota la tendenza forte tra gli esseri umani a
ripetere inutilmente
dei frammenti semplificati delle vecchie teorie rivoluzionarie, la cui
usura è nascosta loro dal semplice fatto che essi non
provano ad
applicarle a qualche lotta effettiva per trasformare le condizioni
nelle quali realmente si trovano; di modo che quasi non comprendono
neppure come queste teorie si siano potute impiegare, con fortune
diverse, in conflitti di altri tempi.
Malgrado ciò non vi è il
minimo dubbio, per chi esamini
freddamente la questione, che coloro i quali vogliono scuotere
realmente una società costituita devono formulare una teoria
che
spieghi fondamentalmente tale società; o almeno che abbia
tutta
l'aria di darne una spiegazione soddisfacente. Dal momento in cui
questa teoria è un po' divulgata, a condizione che lo sia in
scontri che perturbino il riposo pubblico, e anche prima che essa
giunga ad essere esattamente compresa, il malcontento dovunque in
sospeso sarà aggravato e inasprito, dalla semplice
conoscenza
vaga dell'esistenza di una condanna teorica dell'ordine delle cose. E
dopo, sarà cominciando a condurre con collera la guerra
della
libertà che tutti i proletari potranno divenire strateghi.
Senza dubbio, una teoria generale
calcolata per tale
scopo deve anzitutto evitare di apparire come una teoria visibilmente
falsa; e dunque non deve esporsi al rischio d'essere contraddetta dal
seguito dei fatti. Ma bisogna anche ch'essa sia una teoria
perfettamente inammissibile. Essa deve poter dichiarare cattivo,
davanti allo stupore indignato di tutti coloro che lo trovano buono, il
centro stesso del mondo esistente, avendone scoperto l'esatta natura.
La teoria dello spettacolo risponde a queste due esigenze.
Il primo merito di una teoria critica
esatta
è di far apparire immediatamente ridicole tutte le altre.
Così, nel 1968, mentre tra le correnti organizzate che, nel
movimento di negazione con cui era cominciata la degenerazione delle
forme di dominio di questo tempo, vennero a difendere il proprio
ritardo e le proprie corte ambizioni, nessuna disponeva di un libro di
teoria moderna, né riconosceva niente di moderno nel potere
di
classe che si trattava di rovesciare, i situazionisti furono in grado
di porre in campo la sola teoria della temibile rivolta di maggio; e la
sola che rendeva conto di nuove clamorose esigenze che nessuno aveva
fino ad allora proclamato. Chi piange sul consenso? Noi l'abbiamo
ucciso. Cosa fatta capo
ha [2].
Quindici anni prima, nel 1952, quattro o
cinque
persone poco raccomandabili di Parigi decisero di cercare il
superamento dell'arte. Risultò che, come felice conseguenza
di
una marcia audace lungo tale percorso, le vecchie linee di difesa che
avevano spezzato le precedenti offensive della rivoluzione sociale si
trovavano superate e aggirate. Si scopri a quel punto l'occasione di
lanciarne un'altra. Questo superamento dell'arte non è altro
che
il "passaggio a nordovest" della geografia della vera vita, che era
stato cosÏ spesso cercato durante più di un secolo,
specialmente a partire dall'autodistruzione della poesia moderna. I
precedenti tentativi, in cui tanti esploratori si erano perduti, non
erano mai approdati direttamente su una tale prospettiva. E
probabilmente perché avevano ancora qualcosa da bruciare
della
vecchia provincia artistica, e soprattutto perché la
bandiera
delle rivoluzioni sembrava tenuta da altre mani, più
esperte.
Mai però questa causa aveva subito una disfatta cosi
completa e
lasciato il campo di battaglia cosi deserto, come nel momento in cui
noi venimmo a schierarci dalla sua parte. Credo che il richiamo di
tali circostanze costituisca il miglior chiarimento che si possa
apportare alle idee e allo stile de La società dello
spettacolo.
E a questo riguardo, se la si vuole ben leggere, si vedrebbe che i
quindici anni che ho trascorso a meditare sulla rovina dello Stato, non
li ho passati né a dormire né a giocare.
Non c'è una parola da cambiare a questo libro in cui, a
eccezione di tre o quattro errori tipografici, nulla è stato
corretto nel corso della dozzina di ristampe che ha visto in Francia.
Mi lusingo d'essere uno dei rarissimi esempi contemporanei di qualcuno
che ha scritto senza essere immediatamente smentito dagli avvenimenti,
e non voglio dire smentito cento volte o mille volte, come gli altri,
ma nemmeno una sola volta. Non dubito che la conferma che incontrano
tutte le mie tesi debba continuare sino alla fine del secolo, e anche
al di là. La ragione è semplice: ho compreso i
fattori
costitutivi dello spettacolo «nel corso del movimento e
dunque
anche dal loro lato effimero», vale a dire considerando
l'insieme
del movimento storico che ha potuto edificare questo ordine, e che ora
comincia a dissolverlo. Sulla scala di questo movimento, gli undici
anni che sono passati dal 1967 e dei quali ho potuto conoscere
abbastanza da vicino i conflitti, non sono stati che un momento del
seguito necessario di ciò che era scritto;
benché, nello
spettacolo stesso, siano stati riempiti dall'apparire e dal susseguirsi
di sei o sette generazioni di pensatori più definitivi gli
uni
degli altri. Durante questo tempo, lo spettacolo non ha fatto che
raggiungere più esattamente il suo concetto, e il movimento
reale della sua negazione non ha fatto che espandersi per estensione e
per intensità.
In effetti, era compito della stessa
società
spettacolare aggiungere qualcosa di cui questo libro non aveva, io
credo, bisogno: delle prove e degli esempi più pesanti e
più convincenti. Si è potuta vedere la
falsificazione
intensificarsi e scendere sino alla fabbricazione delle cose
più
banali, come una nebbia appiccicosa che si accumuli a livello del suolo
di tutta l'esistenza quotidiana. Si è potuto veder
pretendere
all'assoluto, sino alla follia "telematica", al controllo
tecnico
e poliziesco degli uomini e delle forze naturali, controllo i cui
errori proliferano proprio allo stesso ritmo dei mezzi. Si è
potuta vedere la menzogna statale svilupparsi in sé e per
sé, avendo così ben dimenticato il proprio legame
conflittuale con la verità e con la verosimiglianza, in modo
tale da poter dimenticare anche se stessa e sostituirsi di ora in ora.
L'Italia ha avuto recentemente l'occasione di contemplare questa
tecnica a proposito del rapimento e della messa a morte di Aldo Moro,
al punto più alto che essa abbia mai raggiunto, e che
tuttavia
sarà ben presto sorpassato, qui o altrove. La versione delle
autorità italiane, aggravata piuttosto che migliorata da
cento
ritocchi successivi, e che tutti i commentatori si sono fatti un dovere
di ammettere in pubblico, non è stata credibile un solo
istante.
La sua intenzione non era d'essere creduta, ma d'essere la sola in
vetrina; e dopo d'essere dimenticata, esattamente come un cattivo libro.
Fu un'opera mitologica con grandi
macchinari
scenici, in cui degli eroi terroristi trasformisti diventano volpi per
prendere in trappola la loro preda, leoni per non temere nulla da
nessuno per tutto il tempo che la sorvegliano, e pecore per non trarre
da questo colpo assolutamente niente che possa nuocere al regime che
ostentano di sfidare. Ci viene detto che essi hanno la fortuna di avere
a che fare con la più incapace delle polizie, e che inoltre
si
sono potuti infiltrare senza problemi nelle sue più alte
sfere.
Questa spiegazione è poco dialettica. Un'organizzazione
sediziosa che mettesse alcuni dei suoi membri in contatto con i servizi
di sicurezza dello Stato, a meno di non averveli introdotti vari anni
prima per svolgervi lealmente il loro compito in attesa che giunga una
grande occasione di servirsene, dovrebbe aspettarsi che gli stessi
propri manipolatori vengano a loro volta manipolati: e sarebbe dunque
privata dell'olimpica assicurazione d'impunità che
caratterizza
il capo di stato maggiore della «brigata rossa». Ma
lo
Stato italiano dice di meglio, con l'approvazione unanime di coloro che
lo sostengono. Esso ha pensato, come qualsiasi altro, di infiltrare
degli agenti dei propri servizi speciali nelle reti terroristiche
clandestine, dove è poi così facile per loro
assicurarsi
una rapida carriera tino alla direzione, facendo cadere in primo luogo
i loro superiori, come fecero, per conto dell'Ochrana zarista,
Malinowskij che ingannò anche l'astuto Lenin, o Azev che,
una
volta alla testa dell'organizzazione di combattimento del Partito
socialista-rivoluzionario, spinse la virtù sino a far egli
stesso assassinare il primo ministro Stolypin.
Una sola sventurata coincidenza
è venuta ad
ostacolare la buona volontà dello Stato: i suoi servizi
speciali
erano appena stati dissolti. Un servizio segreto, fino a quel momento,
non era mai stato dissolto come, ad esempio, il carico di una
petroliera gigante in acque costiere, o una frazione della produzione
industriale moderna a Seveso. Conservando i propri archivi, gli
informatori o l'organico degli ufficiali, cambiava semplicemente di
nome. E' così che in Italia il Sim, militari del regime
fascista, così celebre suoi omicidi all'estero, era divenuto
il
Sid, Servizio Informazioni della difesa, sotto il regime
democtatico-cristiano. D'altra parte, quando si è
programmata su
un calcolatore una specie di dottrina-robot della «brigata
rossa», lugubre caricatura di ciò che si
riterrebbe dover
pensare e fare se si preconizzasse la scomparsa di questo Stato, un
lapsus del calcolatore - a tal punto è vero che queste
macchine
dipendono dall'inconscio di coloro che le informano - ha fatto
sì che venisse attribuita questa stessa sigla di Sim (che
vuol
dire questa volta "Stato imperialista delle multinazionali" [3]), all'unico pseudoconcetto ripetuto
automaticamente dalla «brigata rossa».
Questo Sid, bagnato
di sangue italiano,
ha dovuto essere recentemente dissolto perché, come lo Stato
confessa post festum,
è esso che, dal 1969, ha eseguito
direttamente - il più delle volte, ma non sempre alla
dinamite -
questa lunga serie di massacri che sono stati attribuiti, secondo le
stagioni, agli anarchici, ai neofascisti o ai situazionisti. Ora che la
«brigata rossa» fa esattamente lo stesso lavoro, e
per una
volta almeno con una capacità operativa molto superiore,
esso non
può evidentemente combatterla dato che è
dissolto. In un
servizio segreto degno di questo nome, la dissoluzione stessa
è
segreta. Non si può dunque distinguere quale proporzione
degli
effettivi sia stata ammessa ad un'onorevole pensione; quale sia stata
assegnata alla «brigata rossa», o prestata magari
allo
scià d'Iran per incendiare un cinema ad Abadan; quale altra
sia
stata discretamente sterminata da uno Stato probabilmente indignato di
apprendere che qualche volta si erano oltrepassate le sue istruzioni, e
del quale si sa che non esiterà mai ad ammazzare i figli di
Bruto pur di far rispettare le proprie leggi, dal momento in cui
l'intransigente rifiuto ad accettare la benché minima
concessione per salvare Moro ha finalmente dimostrato che esso
possedeva tutte le ferme virtù della Roma repubblicana.
Giorgio Bocca, che passa per il miglior
analista
della stampa italiana e che fu nel 1975 la prima vittima del Rapporto
veridico di Censor,
trascinando subito nel suo errore tutta la nazione,
o almeno lo strato qualificato che scrive sui giornali, non
è
stato scoraggiato dal mestiere a causa di questa disgraziata
dimostrazione della sua stupidaggine. E può anche darsi che
sia
un bene per lui che essa sia stata provata allora da una
sperimentazione così scientifica perché,
altrimenti, si
potrebbe essere pienamente convinti che è per
venalità, o
per paura, che nel maggio 1978 egli ha scritto il suo libro Moro: una tragedia italiana,
nel quale si fa premura di trangugiare, senza perderne una, tutte le
mistificazioni messe in circolazione, per rivomitarle dichiarandole
eccellenti. Un solo istante egli è indotto ad evocare il
centro
della questione, ma beninteso all'inverso, quando scrive: «Oggi
le cose sono cambiate; con il terrore rosso alle spalle, le frange
operaie estremiste possono opporsi o tentare di opporsi alla politica
sindacale. Chi ha assistito a un'assemblea operaia in una fabbrica come
l'Alfa Romeo di Arese ha potuto vedere che il gruppo degli estremisti,
non più di cento persone, è però in
grado di stare
in prima fila e di urlare accuse e insulti che il Pci deve sopportare»
[4]
Che degli operai rivoluzionari insultino degli
stalinisti, ottenendo il sostegno di quasi tutti i loro compagni, non
c'è niente di più normale, poiché
vogliono fare
una rivoluzione. Non sanno essi forse, istruiti da una lunga
esperienza, che la condizione preliminare è quella di
scacciare
gli stalinisti dalle assemblee? E' per non aver potuto farlo che la
rivoluzione fallì in Francia nel 1968 e in Portogallo nel
1975.
Ciò che è insensato e odioso è di
pretendere che
queste «frange operaie estremiste» possano giungere
a
questo stadio necessario perché avrebbero, «alle
spalle», dei terroristi. Al contrario, è proprio
perché un gran numero di operai italiani è
sfuggito
all'inquadramento della polizia sindacal-stalinista che ha dovuto
essere lanciata la «brigata rossa», il cui
terrorismo
illogico e cieco non può che dar loro fastidio; mentre i mass media
coglievano l'occasione per riconoscervi senza l'ombra di un dubbio il
loro distaccamento avanzato, e i loro inquietanti dirigenti.
Bocca insinua che gli stalinisti siano
costretti a sopportare le ingiurie, che hanno così
largamente meritato dovunque da sessant'anni in qua, perché
sarebbero fisicamente minacciati da dei terroristi che l'autonomia
operaia terrebbe in riserva. E' una fesseria particolarmente ignobile
perché nessuno ignora che a quella data, e anche molto
oltre, la «brigata rossa» si era ben guardata dal
prendere di mira gli stalinisti personalmente. Qualunque sia l'immagine
che vuole offrire di se stessa, essa non sceglie a caso i periodi di
attività, né a piacere le sue vittime.
In tale clima, si constata
inevitabilmente l'allargamento di uno spazio periferico di piccolo
terrorismo sincero, più o meno sorvegliato e tollerato
momentaneamente, come un vivaio in cui si può sempre pescare
su ordinazione qualche colpevole da mostrare su un vassoio; ma la force de frappe
degli interventi centrali non poteva che essere composta da
professionisti, come conferma ogni dettaglio del loro stile.
Il capitalismo italiano, e il suo
personale governativo con lui, è molto diviso sulla
questione, in effetti vitale ed eminentemente incerta, dell'impiego
degli stalinisti. Certi settori moderni del grande capitale privato
sono o sono stati risolutamente a favore; e altri, che sono appoggiati
da molti degli amministratori del capitale delle imprese semistatali,
sono più ostili. Il personale statale elevato gode di una
larga autonomia di manovra, perché le decisioni del capitano
prevalgono su quelle dell'armatore, quando la nave affonda, ma
è esso stesso diviso. L'avvenire di ogni clan dipende dalla
maniera in cui saprà imporre le proprie ragioni, provandole
nella pratica. Moro credeva nel «compromesso
storico», vaie a dire nella capacità degli
stalinisti di spezzare finalmente il movimento degli operai
rivoluzionari. Un'altra tendenza, quella che è per il
momento in condizione di controllare i comandanti della
«brigata rossa», non vi credeva; o almeno riteneva
che gli stalinisti, per i deboli servizi che possono rendere e che
renderanno in ogni modo, non debbano essere trattati con troppo
riguardo, e che bisogna bastonarli più duramente
perché non diventino troppo insolenti.
Si è visto che quest'analisi
non era priva di valore poiché, rapito Moro a guisa di
affronto inaugurale al «compromesso storico» infine
autenticato da un atto parlamentare, il partito stalinista ha
continuato a fingere di credere all'indipendenza della
«brigata rossa». Si è tenuto il
prigioniero in vita finché si è creduto di poter
prolungare l'umiliazione e l'imbarazzo degli amici, che dovevano subire
il ricatto facendo nobilmente finta di non comprendere che cosa si
aspettassero da loro certi sconosciuti barbari. Dopodiché la
si è ugualmente fatta finita non appena gli stalinisti hanno
mostrato i denti, facendo pubblicamente allusione a delle oscure
manovre: e Moro è morto deluso.
In effetti, la «brigata
rossa» ha un'altra funzione, di interesse più
generale, che è di sconcertare o screditare i proletari che
si ergono realmente contro lo Stato, e forse un giorno di eliminarne
qualcuno dei più pericolosi. Quest'ultima funzione gli
stalinisti l'approvano, poiché essa li aiuta nel loro
faticoso compito. Del lato invece che danneggia loro stessi, limitano
gli eccessi con delle insinuazioni velate in pubblico nei momenti
cruciali, e con minacce precise e urlate nei loro costanti negoziati
intimi con il potere statale. La loro arma di dissuasione è
che essi potrebbero improvvisamente dire tutto ciò che sanno
della «brigata rossa», fin dal principio. Ma
nessuno ignora che essi non possono usare quest'arma senza infrangere
il «compromesso storico»; e che dunque sperano
sinceramente di potersi mantenere al riguardo tanto discreti quanto lo
furono, a suo tempo, sulle imprese del Sid propriamente detto. Cosa
diverrebbero gli stalinisti in una rivoluzione? Quindi si continua a
tenerli sotto pressione, ma non troppo. Quando, dieci mesi dopo il
rapimento di Moro, la stessa invincibile «brigata
rossa» abbatte per la prima volta un sindacalista stalinista,
il partito cosiddetto comunista reagisce immediatamente, ma sul solo
terreno delle forme protocollari, minacciando i suoi alleati di
obbligarli a considerarlo ormai come un partito, certo sempre leale e
costruttivo, ma che sarà a fianco della maggioranza, e non
più al loro fianco nella maggioranza.
Come il barile sa sempre di aringa, cosi
uno stalinista sarà sempre nel proprio elemento ovunque si
respiri un odore di crimine occulto di Stato. Perché questi
si offenderebbero per l'atmosfera delle discussioni al vertice dello
Stato italiano, con il coltello nella manica e la bomba sotto il
tavolo? Non era forse nello stesso stile che si regolavano le
controversie fra, per esempio, Kruscev e Beria, Kadar e Nagy, Mao e Lin
Piao? E d'altra parte i dirigenti dello stalinismo italiano hanno fatto
anch'essi i macellai nella loro gioventù, al tempo del loro
primo compromesso storico, quando si erano incaricati, insieme agli
altri impiegati del «Comintern», della
controrivoluzione al servizio della Repubblica democratica spagnola nel
1937. All'epoca fu la loro «brigata rossa» che
rapì Andrés Nin, e lo uccise in un'altra prigione
clandestina.
Queste tristi verità numerosi
italiani le conoscono da molto vicino, e altri ben più
numerosi se ne sono immediatamente resi conto. Ma esse non sono rese
pubbliche da nessuna parte, perché gli uni sono privati dei
mezzi per farlo, e gli altri della voglia. E' a questo livello
dell'analisi che è fondato parlare di una politica
«spettacolare» del terrorismo, e non, come ripete
volgarmente la finezza subalterna di tanti giornalisti o professori,
perché dei terroristi siano talvolta mossi dal desiderio di
far parlare di sé. L'Italia riassume le contraddizioni
sociali del mondo intero e tenta, nel modo che si sa, di amalgamare in
un solo paese la Santa Alleanza repressiva del potere di classe,
borghese e burocratico-totalitario, che già funziona
apertamente su tutta la superficie della Terra, nella
solidarietà economica e poliziesca di tutti gli Stati:
sebbene, anche lì, non senza qualche discussione e qualche
regolamento di conti all'italiana. Essendo per il momento il paese più avanzato nello slittamento verso
la rivoluzione proletaria, l'Italia è anche il laboratorio
più moderno della controrivoluzione internazionale. Gli
altri governi sorti dalla vecchia democrazia borghese prespettacolare
guardano con ammirazione al governo italiano per
l'impassibilità che esso sa conservare al centro tumultuoso
di tutte le degradazioni, e per la tranquilla dignità con la
quale siede nel fango. E' una lezione che dovranno applicare a casa
propria per un lungo periodo.
In effetti, i governi, e le numerose
competenze subordinate che li assecondano, tendono dappertutto a
divenire più modesti. Essi si accontentano già di
far passare per una tranquilla e abitudinaria pratica degli affari
correnti la loro gestione, funambolesca e spaventata, di un processo
che diviene senza posa più insolito, e che essi disperano di
poter dominare. E come loro - l'aria del tempo apportando tutto
ciò - anche la merce spettacolare è stata portata
a un sorprendente rovesciamento del suo tipo di giustificazione
menzognera. Essa presentava come beni straordinari, come la chiave di
un'esistenza superiore, e magari anche d'élite, cose del
tutto normali e banali: un'automobile, delle scarpe, una laurea in
sociologia. Essa è oggi costretta a presentare come normali
e familiari cose che sono divenute, di fatto, del tutto straordinarie.
Questo è del pane, del vino,
un pomodoro, un uovo, una casa, una città? Certamente no,
poiché una concatenazione di trasformazioni interne, a breve
termine economicamente utile a coloro che detengono i mezzi di
produzione, ne ha conservato il nome e buona parte dell'apparenza, ma
ritirandone il gusto e il contenuto. Ciò nonostante si
assicura che i vari beni consumabili rispondano indiscutibilmente a
queste denominazioni tradizionali e si presenta come prova il fatto che
non esiste più niente d'altro e che dunque non
c'è paragone possibile. Come si è fatto in modo
che molta poca gente sappia dove trovare cose autentiche là
dove ancora esistono, così il falso può rilevare
legalmente il nome del vero che si è estinto. E' lo stesso
principio che regola l'alimentazione o l'habitat del popolo e si
estende dappertutto, fino ai libri o alle ultime apparenze del
dibattito democratico che ci si degna di mostrargli.
La contraddizione essenziale del dominio
spettacolare in crisi è che esso ha fallito nel punto in cui
era il più forte, in certe piatte soddisfazioni materiali
che escludevano ben altre soddisfazioni, ma che si presumevano
sufficienti per ottenere l'adesione reiterata delle masse di
produttori-consumatori. Ed è precisamente questa
soddisfazione materiale che esso ha inquinato e ha cessato di fornire.
La società dello spettacolo era cominciata ovunque nella
costrizione, nell'inganno, nel sangue; ma essa prometteva un seguito
felice. Credeva di essere amata. Ora non promette più nulla.
Essa non dice più: «Ciò che appare
è buono, ciò che è buono
appare». Dice semplicemente: «E'
così». Essa riconosce francamente di non essere
più, per l'essenziale, riformabile; benché il
cambiamento costituisca la sua stessa natura, per tramutare in peggio
ogni cosa particolare. Essa ha perduto tutte le illusioni generali su
se stessa.
Tutti gli esperti del potere, e tutti i
loro calcolatori, sono riuniti in permanenti consultazioni
pluridisciplinari, se non per trovare il modo di guarire la
società malata, almeno per conservare fino al limite del
possibile, anche in coma irreversibile, un'apparenza di sopravvivenza,
come per Franco e Boumedienne. Un vecchio canto popolare toscano
conclude in modo più rapido e più saggio: La vita non è la
morte,/e la morte non è la vita./La canzone è
già finita.
Chi leggerà attentamente
questo libro vedrà che esso non dà alcuna sorta
di assicurazioni sulla vittoria della rivoluzione, né sulla
durata delle sue operazioni, né sulle aspre vie che
dovrà percorrere, e meno ancora sulla sua
capacità, talora vantata alla leggera, di dare a ciascuno la
perfetta felicità. Meno di ogni altro, il mio punto di
vista, che è storico e strategico, può ritenere
che la vita debba essere, per il solo fatto che questo ci sarebbe
gradito, un idillio senza pena e senza male; né dunque che
la malvagità di qualche proprietario e qualche capo crei da
sola l'infelicità di tutti gli altri. Ciascuno è
figlio delle proprie opere, e come la passività si fa il
letto, così dorme, li più grande risultato della
decomposizione catastrofica della società di classe
è che, per la prima volta nella storia, il vecchio problema
di sapere se gli uomini, nella loro massa, amino realmente la
libertà, è ormai superato: perché ora
si troveranno costretti ad amarla.
E' giusto riconoscere la difficoltà e
l'immensità dei compiti della rivoluzione che vuole
instaurare e mantenere una società senza classi. Essa
può abbastanza semplicemente cominciare ovunque,
là dove delle assemblee proletarie autonome, non
riconoscendo al di fuori di se stesse alcuna autorità o
proprietà di chicchessia, ponendo la propria
volontà al di sopra di tutte le leggi e di tutte le
specializzazioni, aboliranno la separazione degli individui, l'economia
mercantile, lo Stato. Ma essa non trionferà che imponendosi
universalmente, senza lasciare una parcella di territorio ad alcuna
forma residua di società alienata.
Allora si rivedrà un'Atene o
una Firenze da cui nessuno sarà respinto, estesa sino ai
confini del mondo; e che, avendo abbattuto tutti i propri nemici,
potrà infine dedicarsi gioiosamente alle vere divisioni e
alle rivalità senza fine della vita storica.
Chi può ancora credere a
qualche esito meno radicalmente realistico? Sotto ogni risultato e ogni
progetto di un presente infelice e ridicolo, si vede ormai iscritto il Mane, Tekel, Fares [5] che annuncia la caduta infallibile di
tutte le città d'illusione.
I giorni di questa società
sono contati; le sue ragioni e i suoi meriti sono stati pesati e
trovati leggeri; i suoi abitanti si sono divisi in due partiti, uno dei
quali vuole che essa scompaia.
1. E' l'edizione curata da Paolo
Salvadori per
l'editrice Vallecchi, Firenze, 1979. Scritto a gennaio del 1979, il
«Préface a la quatrième
édition italienne de
"La société du spectacle"» fu
pubblicato a febbraio
1979 dalle Editions Champ Libre di Parigi.
2. In italiano nel testo
[n.d.t.].
3. Abbiamo corretto la formulazione
inesatta dell'Autore: Société
internationale des multinationales [n.d.t.].
4. G. Bocca, Moro: Una tragedia italiana,
Bompiani, Milano 1978, p. 18 [n.d.t.].
5. Daniele, 5, 25-8.
E' un
riferimento a Baltazar, l'ultimo satrapo babilonese, cui la scritta in
questione (equivalente a «Giudicato, Condannato,
Distrutto») annunciò
l'imminente caduta poco prima che fosse ucciso [n.d.t.].